Come gettare nuova luce su ciò che conosciamo
di Leonardo Nolé
“Ecco cosa puoi dire dell’uomo: quando le teorie cambiano e crollano, quando le scuole, le filosofie, gli angusti vicoli bui del pensiero nazionale, religioso ed economico crescono e si disintegrano, l’uomo non si ferma, procede brancolando, ferendosi, a volte ingannandosi. Fattosi avanti, può darsi che indietreggi, ma solo di mezzo passo, mai di un passo intero”. Le parole di uno dei capitoli centrali di Furore di John Steinbeck, lette da Alessandro Baricco con l’accompagnamento musicale di Francesco Bianconi durante il Salone del Libro di Torino, sembrano particolarmente adatte a raccontare la situazione che vivono oggi gli Stati Uniti d’America, risvegliatisi la mattina dopo le ultime elezioni presidenziali con la sensazione di aver fatto non uno, ma molti passi indietro. Gli scrittori americani che hanno partecipato al Salone, la cui sezione principale era intitolata proprio Another Side of America, hanno testimoniato spesso questo peso, questa fatica, questa vergogna. Ma parlando dei loro testi, descrivendo l’impegno e la peculiarità del loro mestiere, hanno anche ragionato sulla possibilità di ricostruire con la letteratura, utilizzando le parole per mettere alla prova il presente e gettare nuova luce su ciò che pensiamo di conoscere.
Quali convenzioni?
È quello che ha fatto Richard Ford, in conversazione con Sandro Veronesi, presentando il suo ultimo romanzo intitolato Tra loro (trad. dall’inglese di Vincenzo Mantovani, Feltrinelli, Milano 2017), in cui spinge la lingua a descrivere il rapporto che univa i suoi genitori e lo spazio particolare riservato ai figli. “Questo memoir”, ha spiegato l’autore, “serve soprattutto a contrastare l’idea della post-verità, cioè di un tempo in cui anche un bugiardo può diventare presidente degli Stati Uniti. Parlare dei miei genitori vuol dire al contrario parlare di fatti reali, di donne e uomini davvero esistiti, per ricordare che anche loro, persone semplici, hanno avuto un ruolo centrale nella storia di questo Paese”.
Il potere delle relazioni di plasmare la realtà è emerso anche nelle bellissime letture tratte da Le nostre anime di notte (trad. dall’inglese di Fabio Cremonesi, NN Editore, Milano 2017) di Kent Haruf, recentemente riscoperto dalla critica non solo americana. La voce di Licia Maglietta ha dato vita al rapporto in crescendo tra i due protagonisti, Addie e Louis, entrambi vedovi, che decidono di vincere la solitudine condividendo le ore notturne. Risposta a testa alta di fronte alla scandalizzata cittadina del Colorado in cui vivono, la loro relazione incarna la capacità delle emozioni di liberare gli individui e la società dalle convenzioni, ampliando il punto di vista sul mondo.
Uno sforzo simile si ritrova anche nelle parole di Jonathan Lethem, che durante il Salone ha raccontato con Giorgio Vasta e Tiziana Lo Porto il suo romanzo Anatomia di un giocatore d’azzardo (trad. dall’inglese di Andrea Silvestri, La nave di Teseo, Milano 2017). La storia di Alexander Bruno, campione di backgammon colpito da una malattia che gli impedisce parzialmente la vista, diventa così l’occasione per ripensare l’America contemporanea. “La solitudine di questo personaggio”, ha detto Lethem, “mi ha dato modo di riflettere sulla nostra società iperconnessa, su quell’oceano di voci altrui che penetrano nella nostra vita attraverso internet, come in un incubo. Ma soprattutto su una particolare amnesia tutta americana, che ci fa credere di poter sempre giocare senza correre il rischio di perdere. Scrivere un romanzo vuol dire sperare in qualcosa di irraggiungibile, cioè imparare ad accettare che possa esistere un piano alternativo”.
Raccontare l’altra parte del campo di battaglia
La mancanza di alternativa è invece la caratteristica della scrittura di Brian Turner, ex soldato dell’esercito americano in Bosnia e Iraq. Dialogando con Giuseppe Culicchia del suo La mia vita è un paese straniero (trad. dall’inglese di Guido Calza, NN Editore, Milano 2016), l’autore ha sottolineato l’urgenza di raccontare il mondo della guerra, forzando il linguaggio a non mettere “zucchero nel sangue”. “Non mi interessa solo che i lettori capiscano il punto di vista dei soldati”, ha detto, “ma soprattutto che si immedesimino con le vittime, con chi sta dall’altra parte del campo di battaglia. I giornali, spesso, raccontano storie che non smuovono nulla, che abituano le persone alla violenza, mentre l’arte deve cercare l’umano e portarlo alla luce. Non basta descrivere il rumore delle bombe: dobbiamo chiederci che cosa c’è lì dentro”.
Infine, un campo di battaglia tutto interno all’America è emerso dalle pagine della poetessa Claudia Rankine e della sua raccolta in versi Citizen. Una lirica americana (trad. dall’inglese di Silvia Bre e Isabella Ferretti, 66thand2nd, Roma 2017). Durante la conversazione con Claudia Durastanti, la scrittrice di origini giamaicane ha evidenziato la quotidianità del tema della razza, di “un passato che non è mai davvero passato”. “La posizione sociale non c’entra nulla”, ha detto, “Dalle persone meno abbienti fino a Serena Williams o Michelle Obama, tutti i neri americani hanno piccole storie di violenza da raccontare, che feriscono giorno dopo giorno”. Ragionare sulla cittadinanza, allora, significare chiamare in causa il lettore, offrirgli uno spazio per “abitare positivamente la differenza”. “Poi la tua voce interiore ti suggerisce silenziosa di liberarti da ogni soggezione”, scrive Rankine in una delle sue poesie, “tirare dritto non dovrebbe rimanere solo un’ambizione”.
nole.leonardo@gmail.com
L Nolé è dottorando in Letterature comparate e Letterature anglo-americane all’Università di Torino