Prove di scrittura 2.0 – Scuola Holden: i premiati

C’è un po’ di Tuena in ognuno di noi

Abbiamo chiesto agli studenti della Scuola Holden di mettersi in gioco: scrivere una recensione, che facile non è, sul miglior libro letto nel 2015. Abbiamo vagliato, selezionato, discusso attentamente le proposte, e abbiamo deciso di premiarne tre (più uno). Ecco i risultati.

1° classificato

Filippo Tuena
ULTIMO PARALLELO

recensione di Martina Merletti

Filippo Tuena - Ultimo paralleloÈ importante sfogliare questo libro, più di altri, perché le interiora di cui è composto sono rare e preziose: paragrafi come mattoni, piccoli e compatti, decine di foto d’archivio, diari, citazioni e brani di prosa ritmati da un’inedita frammentazione in versi. Sono pagine che lanciano arpioni. “Il libro più aspro che ho mai scritto. Soltanto apparentemente è il resoconto di un’esplorazione polare. Disorientamento, distruzione, fallimento”. Asciutto e disarmante, chiamato a descrivere il suo romanzo Filippo Tuena non si dilunga. Sembra impossibile che uno scrittore capace di scolpire per centinaia di pagine, senza mai ripetersi, un paesaggio ossessivamente artico, si avvalga di tanta sintesi. Dietro Ultimo parallelo, vincitore del Premio Viareggio 2007, si cela un titanico lavoro di documentazione archivistica e letteraria che ha reso possibile la restituzione narrativa del viaggio alla conquista del Polo Sud. Viaggio intrapreso nel 1911 dalla spedizione britannica, guidata dal capitano Scott, che si troverà a fronteggiare l’inaspettata competizione del norvegese Amunsden e a esserne preceduto di trentacinque giorni. Tuena racconta la storia degli sconfitti. Nessun colpo di scena. La speranza muore prima ancora dell’incipit, quando una cartina della marcia riporta sul percorso le croci di chi verrà atteso invano. Eppure, a ogni paragrafo la scarna punteggiatura invola il fiato e, contro ogni logica, alimenta la tensione. Si è lì con gli occhi di chi c’era, ma non soffriva il gelo. Si è lì con gli occhi della meraviglia concepita da Tuena: una prima persona che, impercettibile quanto inesorabile, si svela al lettore come l’uomo in più della spedizione, la morte intrecciata alla voce dell’autore stesso, che ricostruisce e si interroga. Un punto di vista capace di far esplodere, incastonata tra i ghiacci e l’alta letteratura, una lucida, commovente e mai banale esplorazione dell’animo umano

2° classificato

Ryu Murakami
TOKYO SOUP

recensione di Arianna Valenzano

41Y11moFVIL._BO1,204,203,200_Nella Tokyo squallida e decadente dei quartieri a luci rosse avviene l’incontro tra i due protagonisti del romanzo. Kenji è una giovane guida che per sbarcare il lunario accompagna gli stranieri per le vie del sesso della città, mentre il suo cliente, Frank, si presenta come un uomo d’affari americano alla ricerca di divertimenti. È la notte prima di capodanno, e mentre i due uomini vagano per le strade in Kenji nasce la sensazione che qualcosa di brutto stia per accadere. Frank è strano, non rivela mai il suo cognome, il suo portafogli è zeppo di banconote chiazzate di rosso. La giovane guida comincia a sospettare che il suo cliente possa essere pericoloso, ma non riesce a trovare il coraggio di andarsene. All’interno di un Omiai Club, circondato da personaggi evanescenti, ormai ombre di esseri umani, Kenji verrà risucchiato in un vortice di orrore e pazzia di fronte al quale sarà incapace di reagire.
Tokyo soup è un romanzo forte. Le scene pulp e splatter sono così magistralmente descritte che sembra quasi di sentire l’odore ferroso del sangue. È una critica alla società giapponese contemporanea, colpevole di aver dimenticato le proprie tradizioni e la propria cultura per inseguire il profitto. La solitudine, uno dei temi centrali del romanzo, è diventata una stato patologico proprio di ogni individuo, tanto che anche la prostituzione è considerata un modo come un altro per liberarsi dall’isolamento. Un solo personaggio positivo spicca in questo mosaico di umanità degradata, Jun, la ragazza di Kenji; sarà proprio grazie a lei che il giovane riuscirà a tornare alla normalità, liberandosi dal rapporto morboso instauratosi con il suo cliente.
La trama essenziale di questo romanzo permette all’autore di riflettere sull’atteggiamento ambivalente che la società giapponese ha nei confronti del turista straniero o dell’immigrato in cerca di lavoro. Il rapporto tra la cultura occidentale, sempre più interessata ai miti e alle tradizioni del sol levante, e quella nipponica, che tende a un’imitazione superficiale dei modelli occidentali, è un altro dei temi fondamentali del romanzo. Murakami con sapiente maestria riesce a inserire in questo noir sui generis potenti riflessioni e a farci un ritratto intenso e inquietante della Tokyo contemporanea.

3° classificato – ex aequo

Nickolas Butler
SHOTGUN LOVESONGS

recensione di Pierpaolo Moscatello

Nickolas Butler - Shotgun LovesongsIl Wisconsin è una terra magica. Basta sedersi sul colmo di una collina, con il vento che soffia tra i pioppi tremuli e gli abeti. È lì che l’inverno libera la sua voce – rimanendo in silenzio, si può sentirne la musica.
Qui lievita la storia raccontata in Shotgun Lovesongs – romanzo d’esordio di Nickolas Butler -, un piccolo paese di campagna nel Wisconsin e un gruppo di amici, cresciuti insieme come fratelli. Ronny, Kip, Henry, Beth. E poi Lee, che è diventato una rockstar, ma nel Wisconsin torna sempre. Un matrimonio li riunisce dopo anni e un segreto seppellito rischia, adesso, di distruggere ogni cosa.
Butler raccoglie il testimone di grandi scrittori come Faulkner e McCarthy, e conduce la sua narrazione in periferia, lontano dalla vita caotica delle grandi metropoli americane. Ma proprio dai suoi ascendenti ha il coraggio di staccarsi: Shotgun Lovesongs non va alla ricerca di baccelli profondi da schiudere, né ha balene bianche a cui dare la caccia. C’è solo la vita, nella sua intima, spiazzante, quotidiana semplicità. Tecnicamente, la prova di Butler è notevole: riesce a rendersi invisibile, costruendo un ingranaggio narrativo perfetto. Ogni personaggio racconta a modo suo un pezzo della storia, generando poco alla volta un incastro elementare all’apparenza, eppure complesso. Al lettore sofisticato verrebbe da avanzare una critica di faciloneria, per l’ingenuità con cui i sentimenti sono trattati. Ma è proprio questa disarmante banalità a imprigionarci nella pagina, e a suscitare quel nostalgico desiderio di chiamare gli amici di sempre, per stare un po’ seduti insieme con una birra in mano, anche in silenzio. Magari con l’inverno del Wisconsin che soffia, là davanti.
Non è che ciò non basti di per sé. Ma c’è un’altra cosa importante da dire. La storia è ispirata a quella vera di Justin Vernon – Bon Iver – con cui Nickolas Butler ha frequentato le scuole superiori.

Patrick McGrath
FOLLIA

recensione di Michela Marocco

Patrick Mc Grath - FolliaPerdersi. Perdersi in un amore illecito che logora e distrugge. Perdersi in una lettura che non ammette un attimo di respiro, un momento di pausa. Patrick McGrath compone una storia di ossessioni che trascina il lettore in un universo di follia.
1959, un manicomio criminale vittoriano nella campagna londinese. La vicenda è narrata con voce professionale ed esperta da Peter Cleave, medico psichiatra. Peter racconta in prima persona degli amici Max e Stella Raphael, il nuovo vicedirettore e sua moglie, da poco arrivati alla struttura di reclusione, e del suo paziente Edgar Stark, artista carismatico e uxoricida. In una calda estate, fra la trascurata Stella e il subdolo Edgar nasce una relazione che cambierà tutte le vite di chi gravita loro intorno. Una passione travolgente, caratterizzata dal binomio classico di eros e thanatos, amore e morte, che si avviluppa in spire attorno ai due amanti legando inesorabilmente il destino dell’uno alla sorte dell’altra.
Nessun personaggio è esente da critica: in ognuno è presente quella componente profonda e inafferrabile che è la follia quotidiana. McGrath crea un gruppo allucinato dove la mania dà una consistenza unica ai protagonisti, ammantandoli di uno spessore che ci spinge a simpatizzare per loro o a respingerli con forza.
Stella, in particolare, suscita uno sgradevole sgomento nei suoi atteggiamenti verso tutto ciò che la circonda, compreso il figlio. Lei, eroina romantica per eccellenza, incarna quello che è il titolo del romanzo, la follia, cosciente o meno, che si insinua nel nostro quotidiano, la fragilità e la tristezza assoluta che portano a compiere ciò che mai avremmo pensato. Stella è un personaggio scomodo perché mette in scena ciò di cui, realmente, sono capaci gli esseri umani e il lettore sa, nel profondo del suo subconscio, che quei fremiti, quell’egoismo puro e in fondo quella libertà sono poi comuni ad ognuno di noi.
Un romanzo fastidioso dunque, e intrigante insieme, avvincente e spaventoso, complesso come è complessa la mente umana.