dal numero di aprile 2018
Febbraio 2001, così era iniziata la sua direzione: il primo editoriale scritto per “L’Indice”
La storia di questa rivista è un pezzo, non marginale, della storia della cultura italiana. L’orgoglio di coloro che l’hanno fondata, e poi accompagnata in diciotto anni di vita, è ancora lo stesso del primo giorno, perché porta con sé la severa consapevolezza di un contributo critico che affondava le proprie radici nella tradizione d’una società dove Gramsci, Gobetti ed Einaudi avevano affermato le ragioni per discutere un percorso alternativo – anche dolorosamente antagonista per qualche tempo – alla cultura ufficiale. Ma quando “L’Indice” nacque, Big Brother era soltanto il personaggio, di un vecchio intrigante libro della biblioteca di molti di noi. Oggi il Grande Fratello resta ancora in quel vecchio libro sempre più ingiallito, però la maggioranza degli italiani (compreso quel 35 per cento che il ministro De Mauro denuncia come analfabeti, o quasi) vi riconosce soltanto un programma televisivo di ampio successo. Non siamo all’apocalisse, nemmeno a quella di Eco, e tuttavia non possiamo ignorarlo. Come non possiamo ignorare che, tra qualche brevissimo tempo, una grande casa editrice lancerà sul mercato settanta e-book elettronici che in Gutenberg hanno solo un lontano parente e sempre più si prenderanno lo spazio dello scaffale dove il nostro sgualcito 1984 stenterà a conservarsi un suo legittimo posto. “L’Indice” non può limitarsi a conservare tutto questo. Anzi, e proprio per il rispetto che deve alla sua storia, deve saper rispondere ai profondi processi di mutazione che coinvolgono le nostre società, affrontandoli, naturalmente, attraverso l’ottica che ha scelto da sempre – quella d’un rigoroso affiancamento alla produzione letteraria, italiana e straniera – e però guadagnandosi anche uno spazio nuovo, di un più deciso intervento nel dibattito culturale del nostro tempo. Penso che la scelta di un direttore come me, un giornalista che ha sempre viaggiato il mondo, raccontandone gli uomini, le vite, le culture, sia un segnale forte che viene lanciato ai nostri lettori per sottolineare un progetto che riafferma la continuità ma s’impone anche, con profonda consapevolezza, il dovere della discontinuità, dell’apertura ai processi della comunicazione, del riconoscimento di un consumo culturale che segna acriticamente – e in ogni angolo del pianeta – il comune vissuto quotidiano. L’aiuto dei lettori e dei collaboratori (tra i nomi più alti della cultura italiana), è lo strumento essenziale per il raggiungimento del nostro obiettivo. Io ci conto fermamente.
mc
Il ricordo della redazione
Che sia stato un grande onore essere la sua redazione non abbiamo mai avuto l’occasione di dirglielo, e forse non lo avevamo neppure del tutto realizzato fino a ora. Ma non lo abbiamo fatto anche per un motivo più profondo: perché i nostri rapporti non hanno mai avuto nulla di cerimonioso. Qualche volta, non sempre, ci siamo reciprocamente compiaciuti di aver mandato in stampa un bel giornale, ma era un compiacimento collettivo, un “bravi tutti” che esprimeva essenzialmente il piacere della condivisione. Quello che ha accomunato lui e noi, quelli che con lui hanno lavorato più da vicino in questi anni, sono gli atteggiamenti, il registro, si potrebbe quasi dire la postura.
Pochissima deferenza in primo luogo. Il potere nelle sue varie forme (editoriali, sociali o accademiche) e le sue cooptazioni, riti, favori o parate lo interessavano poco o nulla. Con l’orgoglio di chi è venuto da lontano e pur essendo inviato speciale della “Stampa”, dotato dunque di stipendio buono e sicuro, si vedeva rifiutare gli alloggi in affitto da quella borghesia torinese piccola piccola, chiusa, ottusa e benpensante che, dietro il nome Mimmo intuiva non ci fosse un oriundo sabaudo, ma un inelegante terrone da evitare.
Come con Torino, così con l’editoria che conta, quella che fattura grandi cifre, che detta le mode, che promuove i grandi eventi, o con il giornalismo culturale che si accalca alle presentazioni dell’ultimo immancabile libro del solito noto, abbiamo mantenuto e coltivato insieme a lui una certa distanza, una forma parziale e mai dichiarata di estraneità. Non è una posa, e neppure un atteggiamento elitario. È più che altro un istinto, una naturale vocazione a non farsi travolgere dallo spirito dei tempi, a soppesare le parole, a leggere davvero, fino in fondo (i libri in primo luogo), senza lasciarsi abbagliare solo dai titoli, dai numeri, dai comunicati stampa, da una quarta di copertina, o da un involucro ben confezionato.
Era un giornalista serio Mimmo, ma senza alcuna seriosità. Rifuggiva i cliché e si divertiva a esibire colori poco consueti e ortodossi nell’abbigliamento, ma anche i “perbacco”, con cui commentava certe invettive o toni sopra le righe, erano espressioni colorite dal gusto volutamente retrò. Il registro drammatico, lui che i drammi li aveva visti così da vicino in giro per il mondo, non gli si confaceva: “Sto bene – ripeteva – ho un tumore, ma sto bene”. Tra di noi pur nelle difficoltà, individuali o collettive, finiva per prevalere il piacere dello scherzo, della battuta, del prendersi in giro, del buttarla in caciara non appena possibile. Abbiamo con lui seriamente fatto i redattori, vagliato, scritto, commissionato, impaginato, tagliato e titolato, prima di mandare in stampa le nostre pagine ma, tra noi, di rado ci siamo presi sul serio.
Nel numero di aprile 2018, Lui era quella diversità: Le brave ragazze di Léon (l’incipit di un romanzo inedito di Mimmo Càndito) e i libri del nostro direttore in un ricordo di Vittorio dell’Uva e di Camilla Valletti.