In diretta dal Salone del libro
Dibattito con Frédéric Worms, Henry Rousso e Philippe Forest
di Andrea Manara
Parigi, 19 marzo 2016. Livre Paris arriva alla sua terza giornata, è sabato, e l’affluenza di pubblico è notevolmente aumentata rispetto ai primi due giorni. I viali del salone sono affollatissimi, e molte persone sono costrette a seguire in piedi i vari dibattiti in corso. Appena arrivato, nei pressi dello stand Île de France, incrocio il primo ministro Manuel Valls, circondato da fotografi e giornalisti. Poco più in là, non posso non notare l’ultra-mediatizzato – e nominato di fresco al Collège de France – scrittore e poeta congolese Alain Mabanckou. Svoltando l’angolo invece, incrocio un esausto Fabrice Luchini, reduce da due ore di autografi allo stand Flammarion.
Al nuovo Square Savoir & Connaissances, il tema del giorno è il terrorismo. Tema particolarmente sensibile e vicino, visto che siamo a Parigi. Il dibattito che seguiremo vedrà confrontarsi uno scrittore, un filosofo e uno storico sul tema dell’elaborazione del lutto dopo gli attentati del 13 novembre scorso. Lo scrittore è Philippe Forest, docente di letteratura contemporanea all’Università di Nantes e autore di numerosi romanzi e saggi come Tutti i bambini tranne uno (Alet, 2005), Sarinagara (Alet, 2008) e, più di recente, Il gatto di Schrödinger (Delvecchio editore, 2014). Lo storico è Henry Rousso, direttore di ricerca al CNRS e specialista della seconda guerra mondiale, in particolare del regime di Vichy e dell’epurazione. Rousso si è in seguito orientato verso lo studio della memoria collettiva e degli usi del passato, un campo che ha contribuito a creare, e nel 2016 ha pubblicato Face au passé. Essai sur la mémoire contemporaine (Belin). Il filosofo, infine, è Frédéric Worms, membro del Comité consultatif national d’éthiques, specialista dell’opera di Henry Bergson e professore di filosofia contemporanea all’École Normale Supérieure di Parigi, della quale è il vicedirettore e dove dirige il Centre international d’étude de la philosophie française contemporaine. Ad animare il dibattito, Catherine Portevin, giornalista e redattrice capo a Philosophie magazine.
In apertura di discussione, Catherine Portevin mette sul tavolo i concetti-chiave intorno ai quali si snoderà il dibattito, ovvero memoria, perdita, e articolazione fra dimensione individuale e collettiva. Come per Philippe Claudel, quindi, al cuore del dibattito c’è l’elaborazione del lutto, e il posto che viene ad esso assegnato socialmente. Perché questo tema ritorna così spesso? Solo dieci, quindici anni fa sarebbe stato improbabile trovare nel programma del salone del libro un dibattito di questo genere. Perché è importante parlarne oggi? È importante chiederselo, secondo Frédéric Worms, per via del riprodursi di eventi che sono stati a lungo rimossi, e per via del recupero, tipico del nostro tempo, di una dimensione individuale. Ciò che viene rimosso, ritorna, in una forma o in un’altra. È la grande lezione freudiana. È importante quindi pensarlo e poterselo rappresentare, che sia in una forma letteraria, filosofica o storica, per poter accedere indirettamente all’esperienza della perdita; la quale, d’altronde, a sua volta, non ha senso se non nella misura in cui si confronta con una sua rappresentazione. Partendo dunque ciascuno da posizioni diverse, letteraria, filosofica e storica, il dibattito può avere inizio.
Elaborazione del lutto, dovere di memoria o di ingiunzione all’oblio?
Elaborazione del lutto, dovere di memoria o di ingiunzione all’oblio? A questa prima domanda di Catherine Portevin, è Forest a ricordare come il pensiero di Freud sia stato sommariamente strumentalizzato da una sorta di doxa che non ha più molto a che vedere con la psicanalisi. In poche parole, attraverso un’operazione su vasta scala di marketing e propaganda, l’ingiunzione all’oblio investe la cultura di massa stabilendo che bisogna “voltare pagina” e “stare bene”, perché se uno non ce la fa vuol dire che non è abbastanza forte, vuol dire che si compiace nella sua tristezza. Una vera e propria religione della resilienza, un trionfo del positive thinking e della superstizione che impone di scongiurare il lutto e di esorcizzarlo, per sbarazzarsene in buona coscienza come se si trattasse di un fardello, o di una minaccia. Come se gli esseri umani si potessero sostituire l’uno con l’altro, e a un certo punto si potesse dire che il lutto è finito, e quindi se ne possono smettere i segni esteriori. In un certo senso, interviene Frédéric Worms , la psicologia si è ormai sostituita a queste credenze, a questi rituali.
Per Rousso, colpisce il carattere prescrittivo. Perché la nostra società ha bisogno di tali prescrizioni? La nostra società ha paura della perdita, dell’incertezza, di conseguenza ha bisogno di evacuarla. L’ingiunzione che riguarda il lutto, e che consisterebbe nell’andare oltre la perdita, include spesso, in effetti, il dovere di ricordare. Ma secondo modalità particolari e tali da rendere questo ricordo inoffensivo. Il che, ancora una volta, significa liquidare la questione. Vi sono casi in cui, prosegue Henry Rousso, come in Ruanda, è stato organizzato, a livello politico, dall’alto, un vero e proprio oblio strutturale e di stato, nella forma di un dovere di memoria e attraverso una quasi ossessiva esposizione del genocidio, ma soprattutto diffondendone una versione semplicistica che si riduce all’opposizione fra Tutsi e Hutu.
Ma di cosa siamo in lutto dopo gli attentati del 2015?
Ma di cosa siamo in lutto – riprende Catherine Portevin – dopo gli attentati del 2015? Si può dire che la società sia in lutto? Secondo Forest esiste un lutto collettivo solo nella misura in cui questo si ripercuote individualmente, per ciascuno, di modo che storia individuale e storia collettiva si riflettano scambievolmente. Nel suo romanzo Sarinagara è attraverso uno spostamento, cercando altrove, nella storia di altre vite (nelle fotografie scattate da Yosuke Yamahata a Nagasaki dopo il bombardamento atomico per esempio), che il narratore trova modo di raccontare di nuovo il proprio lutto personale.
A Frédéric Worms, autore nel 2012 di Revivre (Flammarion), specialista di Bergson, Catherine Portevin chiede, in riferimento agli attentati del novembre scorso, in che misura il lutto sia un’esperienza del tempo, e se si possono trarre degli insegnamenti da avvenimenti di questo genere. Worms ribadisce che ricominciare a vivere non significa liquidare il passato, anche se fa male; è necessario al contrario mantenerne la presenza, non negarla, affinché certi fantasmi non ritornino. Per Worms esiste una generazione che porterà certamente, e irrimediabilmente – in una dimensione intima, forse senza saperlo – la traccia di questi eventi. Si tratta di eventi che appartengono all’istante, quello in cui producono una rottura folgorante, e cioè incomunicabile, insieme all’impressione che non ci sia niente di più reale. Ma appartengono anche alla durata, perché la loro onda lunga, dilatandosi, può attraversare generazioni. È in questo secondo tempo, quello in cui si vive insieme a ciò che è andato perduto, che si ammassano le rappresentazioni, le parole, i linguaggi, quello della letteratura, della storia o della filosofia per esempio, tutti gli strumenti concettuali, ma anche i fatti esteriori, insomma, la partecipazione degli altri. Che poi sono le nostre risorse per pensare e quindi vivere quello che ci succede. Nel momento dello choc siamo soli, dopo non lo siamo più allo stesso modo. La risposta alla perdita, conclude Worms, non si trova quindi necessariamente sul suo stesso terreno, ma consiste piuttosto in uno spostamento, nell’aprire delle possibilità altrove e nel chiedersi quale forma debba prendere il suo racconto, che rimane qualcosa da fare.
A. Manara è dottore di ricerca in lingua e letteratura francese
e insegna civiltà italiana all’università Sorbonne Nouvelle