L’invenzione della felicità
Intervista a Denis Curti di Chiara D’Ippolito
La Fondazione Ferrero di Alba presenta un nuovo progetto espositivo dedicato al grande fotografo Jacques Henri Lartigue: “L’invenzione della felicità” – The Invention of Happiness.
La mostra – curata da Denis Curti, Marion Perceval e Charles-Antoine Revol – è visitabile fino al 30 marzo 2023 (giovedì e venerdì 15-19 |sabato e domenica 10-19 | ingresso gratuito)
Partiamo dal titolo della mostra, “L’invenzione della felicità”. Perché questo titolo?
Ho fortemente voluto questo titolo e l’ho anche molto discusso con i miei colleghi curatori francesi, meno abituati a una prospettiva che mettesse in discussione un’idea conforme della felicità. Mi spiego. Se a Cartier-Bresson fosse stato commissionato un reportage sulla felicità, cosa che peraltro successe a Doisneau per la sua famosa foto del bacio, lui avrebbe cercato la felicità negli altri, avrebbe fatto il giro del mondo alla ricerca di momenti felici, di altri appunto, perché il concetto di felicità può cambiare a seconda del paese dove ci si trova, del ceto sociale e così via. Per Lartigue, invece, la felicità coincideva con la sua vita. Quando fotografava, guardava se stesso: anche se non compariva mai nelle sue foto, guardava tutto quello che aveva intorno. Guardava a quella zona che si può delimitare con un abbraccio, e raccoglieva tutto, in modo bulimico, scattava di continuo. Ma perché lo faceva? Senza dubbio Lartigue è stato un uomo felice, lo diceva e lo rivendicava, ma aveva anche paura che la sua felicità potesse svanire da un momento all’altro e di non riuscire più a ritrovarla. Grazie alla sua condizione privilegiata, Lartigue ha vissuto solo marginalmente le difficoltà di un secolo con due guerre, ma questo non gli ha impedito di rendersi conto di quanto sia fragile la nostra condizione, dove tutto può cambiare da un giorno all’altro. Di qui, la sua ossessione che la felicità – il privilegio di poter vivere momenti di benessere con i suoi amici, il buon cibo, il buon vino, le belle case, le spiagge dell’oceano e, naturalmente, le donne – potesse sfuggirgli. E quindi fotografava e fotografava… Con le fotografie stabiliva un vero e proprio rapporto fisico: le ritagliava, le attaccava sui suoi famosi album di famiglia e ci scriveva accanto pensieri e riflessioni, così, il giorno dopo, era certo di ritrovare i momenti felici che aveva vissuto. Se avesse potuto le avrebbe mangiate, quelle fotografie, perché potessero appartenergli di più!
A proposito di questa ossessione, in uno dei testi del catalogo, Ferdinando Scianna riporta una frase che gli disse Lartigue – “Con i miei occhi è sempre stato così, o divorano o fuggono via” – e scrive: “Strano mondo quello che diffida di chi ha osato vivere la felicità e ce l’ha raccontata”.
Certo, Lartigue è stato fortunato e felice, ha vissuto moltissimo e ha avuto una vita piena, ma non ha mai nascosto il suo privilegio e il desiderio di raccontarlo. Vero, gli occhi di Lartigue “divoravano” la felicità, perché lui aveva bisogno di introiettarla. Ma Lartigue sapeva anche restituirlo, quel suo privilegio, e lo faceva attraverso le immagini, il lavoro, l’insegnamento. È stato un uomo generoso e inclusivo: nel corso della sua vita, ha realizzato tantissimi workshop durante i quali incontrava i giovani, insegnava loro che la fotografia è sicuramente un linguaggio ambiguo, ma è anche un linguaggio modellabile e che quindi ognuno devo farlo proprio, seguendo i propri sentimenti e la propria visione.
A proposito di inclusività, la mostra fa emergere l’interesse di Lartigue per le piccole cose. Per lui, anche l’ordinario, che un grande reporter non riprenderebbe, è degno di essere fotografato.
Sì, è proprio così. Dobbiamo considerare che Lartigue lavora in un momento in cui – in Francia, soprattutto, ma è un’eredità che arriva anche in Italia – prevalgono i fotografi umanisti. Sono fotografi che raccontano la quotidianità e non i grandi eventi: l’obiettivo della macchina fotografica può essere girato e rivolto anche verso le piccole cose. Ogni dettaglio, per quanto sembri insignificante, ha il diritto di essere guardato e fotografato. Da una parte, dunque, c’è la scuola degli umanisti francesi dell’agenzia Rapho – Robert Doisneau, Izis, Édouard Boubat – dall’altra, c’è la scuola dei fotografi Magnum – Henri Cartier-Bresson, Werner Bischof, Robert Capa, Elliott Erwitt – che in qualche modo fanno un po’ lo stesso lavoro dei francesi, anche se con una più forte un’attenzione al sociale. E poi c’è l’Italia, dove i fotografi vengono chiamati “neorealisti”: una condanna, perché quando finisce la guerra e comincia il fenomeno narrativo degli umanisti, gli italiani si portano dietro il senso di colpa legato al fatto di essere stati tra i fautori della guerra. E questo senso di colpa, lo avverti, lo vedi nelle fotografie, non ti lascia più.
Lartigue, che non sta né da una parte né dall’altra, trova una via assolutamente autonoma e indipendente: quella dello scambio, dello sharing, dell’inclusività. Capisce che la fotografia è il linguaggio più adatto per raccontare l’intimità delle persone e diventa l’apripista di una nuova corrente che oggi è imperante e che racconta e condivide tutto. Non è un caso che il documentario All the Beauty and the Bloodshed (2022) di Nan Goldin abbia vinto il Leone d’oro a Venezia. È successo perché quella fotografia ci ha guidati verso una lettura della realtà che non s’interessa più delle incoronazioni dei nuovi re o dei nuovi papi, ma della nostra vita e della nostra quotidianità.
La mostra è molto diversa rispetto a quelle fatte in passato. In che senso?
L’obiettivo era quello di dimostrare, se mai ce ne fosse ancora bisogno, che Lartigue è stato un fotografo professionista importantissimo, che ha insegnato moltissimo. Se le mostre precedenti si sono limitate a raccontare il fotografo della Belle Époque, con questo progetto siamo andati oltre. Lartigue è il fotografo nato due volte e, quindi, abbiamo raccontato il suo doppio sguardo. La prima vita di Lartigue, quella del fotografo bambino con la macchina fotografica regalatagli da suo padre, con la riflessione sul tema della felicità, la Belle Époque e i suoi diari visivi, i 126 album di famiglia in cui raccoglieva ciò per cui era valso la pena vivere. E poi, la sua seconda vita, iniziata a 69 anni con la mostra al MOMA di New York, che gli dà una notorietà pazzesca e lo proietta nel mondo della fotografia professionale. Di questo Lartigue si sapeva poco, non si era mai visto niente, e la mostra ne dà conto con più di cinquanta inediti che descrivono il suo lavoro nel mondo della moda e della pubblicità. Abbiamo creato una galleria di fotografie in cui Lartigue si confronta con tutti i grandi della moda, con Richard Avedon, con William Klein, con Helmut Newton, peraltro, tutti immortalati nei suoi scatti. Lartigue si confronta, dunque, con il problema che tutti i professionisti hanno dovuto affrontare: come raccontare il mondo della moda? Klein sceglie di portare la moda fuori dagli studio e scatta immagini meravigliose di modelle in mezzo al traffico di New York, mentre scendono dai taxi. La stessa cosa fa Avedon, e ritrae Dovima in mezzo agli elefanti, con lo sterco per terra e l’abito di Dior. Poi arriva Newton, che introduce il nudo e lavora in sequenze, aggiungendo il tema della narrazione: c’è una modella che accoltella un uomo, c’è una modella che chiude la porta a un uomo per non farlo entrare, c’è un incidente automobilistico. A questo punto Lartigue si chiede: cosa posso aggiungere io? Non posso che fare me stesso e giocare con la sintesi, con l’eleganza, con la capacità di bloccare il movimento. E, infatti, gli scatti migliori sono quelli in cui Lartigue si ricorda di fare Lartigue, perché “fare Lartigue” significa vedere il mondo con quella semplicità e leggerezza che soltanto lui aveva e che tutti gli riconoscevano.
Delle fotografie del Lartigue bambino, la cosa che colpisce è che già allora avesse un’idea di fotografia sequenziale. Non gli bastava congelare un momento in uno scatto, ma c’era l’idea di accostare una serie di fotografie, raccontando una storia.
La prima parte della mostra presenta le fotografie di un bambino piccolissimo, che non andò nemmeno a scuola – a quell’epoca, se eri molto ricco, avevi i precettori – ma che, come testimonia la fotografia di Picasso che si fa l’agopuntura, ebbe la possibilità di entrare in intimità con un certo mondo, di studiare la musica direttamente con i compositori e la storia dell’arte con i pittori. L’approccio progettuale nei confronti del linguaggio fotografico era dunque già presente in Lartigue fin da bambino: inserire le sue fotografie in un diario significava costruire un racconto con immagini che non erano mai uniche, abbracciando un’idea di fotografia complessa, fatta di storytelling, che l’avrebbe accompagnato per tutta la vita.
Nelle fotografie in mostra, la presenza delle donne è fortissima. Che cosa voleva ritrarre, Lartigue, delle donne? Scianna, di nuovo, scrive: “Quanti fotografi avrebbero saputo vedere, e cogliere, con la stessa immacolata eleganza quel miracolo di grazia che ritroviamo nella fotografia di Madeleine Messager detta Bibi che fa la pipì?”
Tra poco, a Milano, aprirà la mostra che ho curato per il centenario di Helmut Newton. Mi ritrovo spesso a parlare con donne che accusano Newton di essere un maschilista, di aver riprodotto fotograficamente l’immagine di una donna oggetto. In realtà, per Newton, le sue fotografie, i suoi big nudes, erano la celebrazione della potenza delle donne. E io credo che Newton abbia guardato molto le fotografie di Lartigue, che abbia osservato la grazia e la dolcezza infinita con cui si avvicinava alle donne. Lartigue era un uomo mai volgare, sempre molto attento con chiunque, inclusivo, generoso. Con le donne aveva un rapporto di seduzione, che era ricambiato, perché è sempre rimasto un eterno bambino, veniva naturale volergli bene. In mostra c’è una fotografia di Marcelle Paolucci, la sua seconda moglie detta Coco, a seno nudo che è un altro perfetto esempio di ciò che scrive Ferdinando: non c’è un’ombra di volgarità, ma, al contrario, traspaiono un rispetto e una grazia incredibili.
All’interno della mostra, c’è anche una parte pensata appositamente per gli spazi della Fondazione Ferrero, che include il nucleo fotografico inedito dedicato alle frequentazioni di Lartigue in Piemonte.
Sì, la mostra è arrivata ad Alba arricchita di alcune immagini che Lartigue ha scattato a Piozzo, dove Lartigue è stato diverse volte insieme a Florette, la sua amatissima terza moglie, musa, modella e compagna di oltre quarant’ anni di vita. Posso anticipare che stiamo lavorando con il Comune di Piozzo per immaginare un percorso espositivo open air e infatti abbiamo già fatto dei sopralluoghi, cercando di riposizionare le foto sui muri o accanto alle finestre delle case. A Lartigue piaceva molto la casa di Piozzo, appartenente alla famiglia materna di Florette. Quando veniva nelle Langhe dipingeva e fotografava la sua amata Florette, come potete vedere nelle foto esposte in mostra. Sono immagini quasi bucoliche, un po’ fuori dal tempo, che ci raccontano di un legame con un territorio che Lartigue ha molto amato.