Vittorio Giacopini – Roma

Tra copertoni, siringhe e scatolame

recensione di Matteo Moca

Vittorio Giacopini
ROMA
pp. 414, € 21
il Saggiatore, Milano 2017

Vittorio Giacopini - RomaÈ possibile costruire un romanzo sulla città di Roma, riuscendo nell’arduo tentativo di racchiudere in un flusso narrativo la sua natura sempre inafferrabile? Ma, soprattutto, in tempi come quelli contemporanei in cui la capitale è coinvolta da continue e, pare, inarrestabili difficoltà, cosa vuol dire tentare di rappresentarla? A queste domande è possibile trovare una risposta, più che ragguardevole, leggendo il nuovo romanzo di Vittorio Giacopini, edito dal Saggiatore, dove l’autore, romano, disegna un mirabile ed atroce ritratto della sua città, lontano da qualsiasi turbinio politico contemporaneo, ma pienamente inserito in una realtà desolante e stanca, arrivata al culmine della sua sopportazione, incapace di altro se non implodere su se stessa.
Giacopini prende le misure dalla percezione odierna della città, la “ugly Roma” come definita dal “New York Times”, e da lì costruisce un eccezionale castello narrativo da cui niente è risparmiato: nelle pagine del suo romanzo si trova l’emergenza della spazzatura (“Roma era soltanto un paesaggio dopo la battaglia. Tanfo e miseria e ingorghi, contrattempi. Prima Porta, Isola Sacra e Infernetto, Malagrotta sguazzavano, e da giorni, tra i liquami nella poltiglia galleggiavano rifiuti della discarica, pattume, medicinali scaduti, vari e assortiti veleni, robaccia tossica”), i disagi della circolazione legati al maltempo, l’incuria dei luoghi e le orde incontrollabili di turisti, tutti elementi necessari per disegnare un memorabile ritratto, in chiave grottesca, non solo della capitale, ma anche dei romani che se ne lamentano (“attenti, scettici, menefreghisti e grevi, paraculi”). Il protagonista, Lucio Lunfardi, ex-giornalista, “cronachista del niente”, e dantesco pellegrino che si muove per la città mimando una vera e propria discesa negli Inferi, progetta un folle piano per allagare la capitale e sommergerla sotto un diluvio punitivo e purificatore, sognando perennemente “il giorno che avrebbe annegato Roma sotto all’acque, facendo piazza pulita”. Il romanzo racconta dunque l’organizzazione di un attentato che compia questo disegno apocalittico, la distruzione e la rigenerazione della città da nuovi e più innocenti presupposti.

Sporcizia e uccellacci

Il nome dei capitoli del libro, che rimandano a vari uccellacci (I passeracci, I piccioni, Gli storni, Le cornacchie e I gabbiani), sta a rappresentare un ennesimo elemento di sporcizia, con gli animali che lordano ancor di più la città, “ennesima piaga” di Roma dal loro arrivo negli anni Zero, e che contribuisce a far dimenticare sempre di più la bellezza eterna, togliendo per sempre lo spazio alla colomba con il ramoscello di ulivo che potrebbe riportare la pace e la serenità. Una distruzione e una rovina che non resta racchiusa solo sottoterra, nelle fogne, ma che invece cade anche dall’alto, come lo sterco degli uccelli, a rappresentare una situazione irreversibile. Ma i veri obiettivi della feroce rappresentazione di Giacopini non sono certamente gli animali: sono chiaramente, gli uomini, primi e indifendibili responsabili. In un continuo confronto tra passato e presente, e sono mirabili davvero le pagine dedicate all’architettura fascista, “la maledetta schifosa miserabile Terza Roma del Duce”, la storia di Roma diviene storia di tutta l’Italia e racconto di un inarrestabile declino da un passato dal potenziale migliorativo ad un presente che non ne ha minimamente mantenuto le premesse.

Il romanzo di Giacopini però costruisce anche, tra “copertoni e siringhe, garze, bende, scatolame, lettighe e carrozzine”, una carta geografica della città di Roma, con uno spirito che prende spunto anche dal suo romanzo precedente, intitolato, appunto, La mappa, e che aveva come protagonista un cartografo alla corte di Napoleone, Serge Victor (“L’Indice” 2016, n. 3). Come in quell’occasione la mappa era fisicamente un modo per fissare il mondo, la storia e la politica, qui il protagonista Luciano Lunfardi mette alla berlina il fallimento totale della razionalità umana e la carta geografica della città di Roma non è altro che un continuo, inascoltato, grido di disperazione.
Giacopini individua, come si accennava, nell’uomo l’ovvia responsabilità di tale situazione e con il suo romanzo si oppone con forza e vigore, sostenuto da uno stile straordinario che pesca tanto da Manzoni quanto da Gadda e Joyce, a una società odierna che tutti trangugia nella sua globalizzazione forzata. La critica di Giacopini, tanto raffinata quanto furiosa ed iconoclasta, universale per fonti e materiali, si arricchisce poi di una citazione dall’Encyclopédie illuminista, che, quasi a suffragare le ipotesi dell’autore, alla voce “Roma”, così recitava: “Ebbe ragione chi disse che i sette colli, una volta ornamento della città, oggi non le servono che per tomba!”.

matteo.moca@gmail.com

M Moca è dottorando in letteratura italiana all’Université Paris Nanterre e all’Università di Bologna