Terra da pipa e pistola
recensione di Renato Leoni
Umberto Simonetta
TIRAR MATTINA
pp. 208, € 16
Baldini&Castoldi, Milano 2018
Sulla scena di un cabaret di quarta categoria appare un attore a disagio che deve lottare con il pubblico più gastronomico possibile in una Milano che si appresta a bere i primi sorsi del riflusso. Delle rime in meneghino si susseguono su una base musicale di una celebre hit di Jhonny Dorelli, narrando le peripezie di un pover’uomo afflitto da disturbi gastrici per le tortuose vie di Montecarlo, luogo dal profumo non più floreale, che diventa la latrina della Costa Azzurra tra un ritornello e l’altro.
Non proprio un testo epico-didascalico, diciamo. Il comico, sdegnato da un pubblico di parvenu, deve sopportare quest’ultima estenuante prova prima dell’incontro degli incontri: un provino in Rovellostrasse, la Mecca di ogni attore, ovvero il Piccolo Teatro di Milano davanti a niente di meno che Giorgio Strehler. E i sogni di un Teatro ambito (e oggi non più esistente) si alternano nel piccolo camerino di Fabio Aldoresi. Questo non è il riassunto di Tirar mattina, ma l’inizio di Mi voleva Strehler (1978), monologo teatrale che Maurizio Micheli porta in scena a più riprese (oltre 1000 repliche) dai vivaci anni del Teatro Gerolamo dove il direttore dell’epoca, ovvero lo stesso autore del testo, tentava di tenere in vita una storica sala di Milano con testi di attualità e critica del costume, e addirittura una riduzione scenica di Carlo Emilio Gadda (prima di Ronconi!) con L’Adalgisa.
Stiamo parlando di Umberto Simonetta che, come il suo illustre maestro e concittadino, si alterava se gli si diceva quanto era bravo a fare della milanesità in letteratura (“la milanesità è, a volte, peggio della negritudine”) e non voleva essere considerato solo “scrittore milanese” (“come se non fossi in grado di uscire dalla cerchia daziaria”) ma in fondo è vero che fu un maestro nel riportare sulle pagine quella lingua viva, coloratissima e mutevole, pronta a captare ogni tendenza che poi Bartezzaghi definirà “il milanesco”, parlando di Beppe Viola.
Di roba minima si parla, insomma, in questa prima opera per cocciutaggine (eh già, perché, come ricordava Oreste Del Buono, Simonetta ci teneva a precisare che era la prima opera di un trittico milanese, nonostante fosse uscita per la collana “Coralli” Einaudi un anno dopo di Lo Sbarbato per i tipi di Parenti): ascoltando il lungo soliloquio dell’Aldino si può assistere alla sua ultima notte balorda tra bar notturni, angoli di periferia poco consigliabili, ambienti della ligèra dell’epoca degni di un Primo Moroni, in una Milano dove barbùn, terra da pipa e pistola cercano di divorare faticosamente un po’ di briciole di un boom più grande di loro: è il miraggio che guida il nostro Ulisse del Giambellino verso un posto di garagista da ricoprire l’indomani, tra diversioni alcoliche e tabacco di marche estinte su di un alfone che anticipa tutte le idiosincrasie dei personaggi per gli oggetti iconici dei futuri libri, fino a I viaggiatori della sera.
Ma la grande protagonista in queste pagine è, come nel monologo di sopra, la notte: luogo archetipico dove si muovono i balordi della più svariata razza notturna cittadina. E dove se non a Milano, prima città italiana dello storico “aperto 24 ore su 24”, poteva inscenarsi un’odissea di periferie, semafori e cartelloni al neon? La diapositiva fatta da Simonetta in quei primi sessanta, così nitida e così poco compresa all’epoca, deve sicuramente aver convinto in qualche modo un curioso Pier Paolo Pasolini che, facendosi portare dall’allora paroliere di Gaber per trani e ritrovi di sbarbati, trasse spunto per la sceneggiatura del film (mai realizzato) La nebbiosa su un gruppo di teddy boys del Nord industrializzato (ora edita da il Saggiatore, 2013).
La Milano di Simonetta non ha i caratteri di umanità degli emarginati di Testori. I suoi picari notturni, imberbi o canuti, si accontentano di possedere lo status symbol del momento o di piazzarsi comodamente (come ne Il giovane normale, poi riadattato da Dino Risi per il grande schermo) e tanto meno pare che Simonetta abbia voglia di redimere o perdonare come il suo collega cattolico. Anzi, un umorismo caustico e senza pietà fa mettere in bocca ai suoi piccoli personaggi i peggiori tic linguistici, i più ottusi luoghi comuni, il più bieco frasario ideologizzato (memorabili i monologhi al femminile per Livia Cerini È arrivata la rivoluzione e non ho niente da mettermi e Mi riunisco in assemblea), i più malriusciti neologismi stranieri, quasi facendo una radiografia degli italiani e della loro società dei consumi, nella quale la lingua rispecchia la peggiore cattiva coscienza di chi invoca tanto un cambiamento ma non riesce ad abbandonare vizi atavici (fino ad arrivare a I viaggiatori della sera, romanzo distopico dalle amarissime venature sarcastiche sull’eliminazione degli anziani in un mondo annichilito dagli oggetti e dal pragmatismo, dal quale Tognazzi trasse il suo ultimo film come regista).
Insomma, leggere Tirar mattina serve per ricomporre il mosaico di una Milano letteraria in quel disegno cominciato da Gadda e arricchito da Bianciardi, Testori, Viola e Jannacci, fino a Giuseppe Genna e al compianto Tommaso Labranca ed è l’occasione di riabbracciare un autore che sperava di essere annoverato tra “i minori del novecento” dopo vent’anni di assenza dagli scaffali delle librerie (eppure un certo Eugenio Montale descrisse Le nostre serate, una delle tante canzoni scritte per Gaber, come “un grande esempio di poesia metropolitana”). Educato oltralpe negli anni del fascismo, amico di Sartre e de Beauvoir, tradotto all’estero, portato in scena a Parigi: sarà stato questo a farlo sentire un poco incompreso dal mondo letterario? Forse aveva ragione nell’intitolare La patria che ci è data una antologia di monologhi di cabaret. E forse non è poco indicativo il titolo dell’ultima opera pubblicata prima della scomparsa, un’antologia di racconti brevi: Che palle!, quasi una stanca sentenza sul proprio tempo.
1leonirenato1@libero.it
R Leoni è studioso di letterature nordiche