Shirley Jackson: la mostruosità grottesca del normale

Una scrittrice proteiforme ai margini di una vita domestica

di Fiorenzo Iuliano

Nella letteratura degli Stati Uniti del Novecento il nome di Shirley Jackson non è sicuramente tra i più noti, e non è neppure tra quelli ai quali manuali e antologie dedicano qualche riga. Per motivi che hanno forse a che vedere con le scelte del mercato editoriale e le aspettative di un pubblico che dalla “grande” letteratura si aspettava altro, non le sono stati riconosciuti gli onori tributati ad autori (il maschile è d’obbligo) non necessariamente più abili o interessanti di lei, e la sua produzione è stata confinata, come nel caso di L’incubo di Hill House, ai ranghi inferiori della cosiddetta “letteratura di genere”. Non che questa marginalità sia stata un fatto totalmente negativo. Ignorata o snobbata dal mondo delle lettere (e per giunta relegata a un orizzonte domestico soffocante e infelice), Shirley Jackson ha modellato le sue storie trasformandole in creature polimorfe, curiose e perfino ribelli, capaci di evocare o diventare esse stesse universi paralleli governati da leggi proprie. Dopotutto se c’è un vantaggio che la letteratura minore, nel senso in cui la intendevano Deleuze e Guattari, ha da sempre posseduto è proprio quello di non doversi per forza prestare alle grandi cause e magari diventare specchio o protesi dell’ego dei suoi autori, riuscendo al contrario a insinuarsi nei luoghi, nelle idee, nei desideri e nelle proiezioni comuni così da disfarli e reinventarli di continuo.

Abbiamo sempre vissuto nel castello | Shirley Jackson - Adelphi EdizioniUna letteratura che procede per metamorfosi più che per metafore, sempre per parafrasare Deleuze, è quella con la quale abbiamo occasione di confrontarci tanto nel romanzo Abbiamo sempre vissuto nel castello (ed. orig. 1962, trad. dall’inglese di Monica Pareschi, pp. 189, € 12, Adelphi, Milano 2020) quanto nella raccolta La luna di miele di Mrs. Smith (ed. orig. 1996, trad. dall’inglese di Simona Vinci, pp. 279, €19, Adelphi, Milano 2020), che contiene tutti i racconti inediti dell’autrice, pubblicati per la prima volta postumi nel 1996 nel volume Just an Ordinary Day. Se i racconti offrono, come vedremo, una campionatura esauriente dei diversi generi con cui Jackson si è misurata, Abbiamo sempre vissuto nel castello è per mille ragioni un’opera indefinibile e inclassificabile, e proprio per questo tanto più straordinariaLa storia delle sorelle Constance e Mary Katherine / Merricat Blackwood, infatti, è una via di mezzo tra una fiaba postmoderna e una morality medievale, in cui riecheggiano a tratti stilemi e motivi di Hawthorne. A cominciare dalla scelta dei nomi: se Blackwood, la “foresta oscura”, rievoca la wilderness che circondava gli (anti)eroi di Hawthorne e inghiottiva qualsiasi speranza nel potere redentore della civiltà, il nome di Constance sottolinea la tenacia delle protagoniste di fronte alle sciagure da cui sono colpite. La storia delle due sorelle procede serena e surreale in una grande casa, dove vivono in compagnia del vecchio e non sempre lucido zio Julian, emarginate dall’intera comunità dell’anonimo paesino in cui si svolge la vicenda.

Il cuore della narrazione custodisce la ragione inconfessabile di questo isolamento forzato, che rimanda a uno dei motivi che più di frequente ricorrono nelle opere di Jackson: la mostruosità foriera di violenza e morte che qualsiasi individuo e qualsiasi famiglia, soprattutto se in apparenza rispettabile, nasconde. Le due sorelle, scopriamo poco per volta, sono solite “sbizzarrirsi con una serie sbalorditiva di sostanze mortali” o nascondere sotto la superficie del terreno che circonda la casa pietre e biglie dotate di poteri apotropaici, in grado di preservare la loro abitazione da qualsiasi nefasta influenza esterna, e sono capaci anche di peggio.

La loro storia è quella di un idillio ininterrotto, che neppure i tentativi del cugino Charles di portare l’ordine e il buonsenso, oppure quelli dell’intera cittadinanza di radere al suolo quella che agli occhi di tutti è una casa maledetta, riescono a spezzare. A rendere la narrazione ancora più surreale e per certi aspetti disturbante è la sua ambientazione contemporanea: la presenza di automobili, telefoni ed elettrodomestici ci ricorda, infatti, che siamo in pieno Novecento, illuminando di un realismo quasi inverosimile quella che vuole a tutti i costi sembrare una leggenda d’altri tempi. Ancora più sorprendente, infine, è che, agli occhi di chi legge, Constance e Merricat restano fino alla fine creature semplici e prive di ogni colpa. L’orrore che le circonda è da loro interamente proiettato all’esterno, riversato, insieme a una risata beffarda, sul resto del mondo che rimane escluso dal loro idillio. Il finale del romanzo conferma il paradosso di questo ribaltamento radicale. Constance e Merricat continueranno a vivere nel loro castello – o, come Merricat più volte ripete, sulla luna – schernite e perfino odiate dagli altri abitanti della cittadina, e additate come creature inquietanti in grado di spaventare i bambini. Dal loro punto di vista, tuttavia, la propria esistenza è e resta profondamente innocente e fiabesca, e l’unico male concepibile è quello che si muove al di fuori del loro piccolo reame incantato.

La luna di miele di Mrs. Smith | Shirley Jackson - Adelphi EdizioniSe la compiutezza formale e la duttilità affabulatoria fanno di Abbiamo sempre vissuto nel castello una storia ammaliante e di grande plasticità narrativa, i racconti contenuti in La luna di miele di Mrs. Smith sono diversi tra loro e visibilmente scritti in momenti lontani della vita dell’autrice, forse con le intenzioni e destinazioni più svariate. Come ricordano nella premessa i due figli, che ne hanno curato l’edizione originale, alcuni di questi racconti sono stati ritrovati in versioni non definitive e pertanto hanno richiesto rimaneggiamenti successivi. Per questo motivo, anche la qualità è obiettivamente disuguale: ci sono storie, come Non bacio gli sconosciuti, la cui scrittura malinconica e nervosa ricorda i bozzetti che Dorothy Parker scriveva negli anni trenta, mentre Il signore del castello è una storia di sortilegi e vendette che utilizza un’ambientazione medievale di maniera, forse fin troppo prevedibile e banale. Al contrario, sono tanti i racconti caratterizzati dal motivo che affiora anche in Abbiamo sempre vissuto nel castello, la mostruosità grottesca del normale. Le voci narranti sono impegnate tanto a mettere in luce quegli elementi che rendono la quotidianità un luogo di alienazione e di potenziale delirio, quanto e soprattutto a restituire a chi legge una prospettiva che fa apparire la vita comune di uomini e donne della piccola e media borghesia americana come intrinsecamente priva di senso, assurda o ridicola, intrappolata in rituali e ripetizioni non solo alienanti ma, a conti fatti, privi di qualsiasi significato e reale utilità. Il racconto da cui la raccolta prende il titolo (si tratta in realtà di due versioni della stessa storia) rappresenta la vita quotidiana di una neo-coppia, la cui moglie è oggetto delle curiosità e dei timori dei vicini che temono le spetti la stessa fine cruenta delle tante donne che l’hanno preceduta. Una vicenda, questa, che viene idealmente ribaltata – non solo per la scelta del ruolo della vittima, ma soprattutto per quella del punto di vista – in Che pensiero, il racconto che ripercorre fantasie e digressioni di una donna fino all’istante in cui, senza un motivo apparente, colpisce a morte il marito.

Altri racconti insistono invece sull’alienazione della società di massa e sull’effetto che l’ossessione infernale per la produzione e il consumo riescono ad avere sulla mente e sui corpi dei protagonisti. Sono tanti gli aspetti della vita ordinaria della classe media americana a essere presi di mira, dalla schizofrenia del mercato immobiliare (Gli indiani vivono in tenda) fino all’ossessione per gli acquisti a rate nelle grandi catene commerciali (Il mio ricordo di S. B. Fairchild). Tuttavia, è Incubo uno dei più riusciti, divertenti e al tempo stesso impressionanti racconti collocabili in questo filone tematico: la vicenda quotidiana di una giovane segretaria che scopre di essere suo malgrado la protagonista di un grande gioco orchestrato da tutti i mezzi di comunicazione (dalla radio ai giornali alla pubblicità), che invitano a trovare nella folla una misteriosa Miss X, non si limita a riflettere sul ruolo dell’individuo-massa e sulle aberrazioni della società dei consumi, totalmente mediatizzata, ma mette pure in luce che dal grottesco non c’è possibilità o speranza di redenzione.

È infatti inutile aspettarsi dai personaggi di Jackson un riscatto di qualsiasi tipo – morale, culturale o ideale – dal mondo che li opprime e li rende degli automi, così come è inutile cercare nei racconti una voce anche solo velatamente moralizzatrice o di condanna. Al contrario, il tono della narrazione procede sempre tra il divertito e l’incredulo, tanto che l’assurdità delirante della vita quotidiana sembra diventare a tratti un meccanismo alieno e incomprensibile in cui i protagonisti sono incappati loro malgrado, e sul quale possono solo limitarsi ad azzardare congetture e interpretazioni. La scenetta della vita di coppia dei coniugi Anderson in Mrs. Anderson è, in questo senso, emblematica. I due si ritrovano per un attimo a riflettere su gesti e parole che ripetono, ritualmente, giorno dopo giorno, fino a osservare che “bisogna parlare in quel modo, dire sempre le stesse cose, per poter andare d’accordo senza riflettere (…) se le persone non si dicessero sempre le stesse cose, allora smetterebbero del tutto di parlarsi”. Bambini e adolescenti sono anch’essi vittime dell’impenetrabilità crudele o paradossale del mondo che li circonda, anche se talvolta possono essere capaci di vedere una realtà diversa da quella che appare agli occhi di tutti e reinventare il mondo sulla base della percezione, talvolta parziale o distorta, che ne hanno (come in Pomeriggio d’estate). Infine, neppure il diavolo, protagonista inaspettato di alcune storie, riesce a sfuggire alla trita ritualità degli esseri umani e delle loro ossessioni meschine e ridicole, tanto che, come succede nel primo e nell’ultimo racconto (La sala da fumo e Mio zio in giardino), è ridotto a mero complice o perfino vittima ignara degli altri (fin troppo umani) personaggi.

Duttile e impudica, la scrittura di Shirley Jackson dà vita di volta in volta a tanti “paesi delle meraviglie” che intrappolano i suoi personaggi e li obbligano finalmente a chiedere, e magari dare, conto di se stessi. La banalità del male quotidiano o la sua indecifrabile assurdità diventano il centro di una narrazione proteiforme, in grado di essere di volta in volta minimale, fiabesca, gotica o umoristica, senza che emerga mai una qualche forma di super-io narrativo che pretenda di insegnarci a stare al mondo.

iuliano@unica.it

F. Iuliano insegna letteratura angloamericana all’Università di Cagliari