Quattro traiettorie e un poeta maledetto
recensione di Vittoria Martinetto
dal numero di giugno 2018
Santiago Gamboa
RITORNO ALLA BUIA VALLE
ed. orig. 2016, trad. dallo spagnolo di Raul Schenardi
pp. 459, € 19
e/o, Roma 2018
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Pur salvando l’impossibilità ontologica di definire in una parola la letteratura di un’intera nazione, nel leggere quest’ultima fatica di Santiago Gamboa c’è da inclinarsi quantomeno a pensare che il minimalismo non sia una caratteristica propria della narrativa colombiana. Baricco a proposito dello scialo di storie presenti in Cent’anni di solitudine, diceva che a chiunque sarebbero servite da spunto per scrivere almeno altri dieci romanzi invece di venire generosamente dilapidate in uno solo. Finisce qui il parallelismo fra i colombiani Gabo e Gamboa, quest’ultimo quanto mai lontano dal realismo magico, ma non dall’esorbitanza, come se avesse immagazzinato troppe storie da raccontare e volesse riunirle tutte in un libro, a rischio di forzare un po’ la mano per sincronizzarle tra fatalità e coincidenze. Qualcuno ha parlato di romanzo polifonico, ma secondo me non lo è, o non lo è tradizionalmente parlando. Un narratore principale c’è, eccome, malgrado all’inizio i fili narrativi si presentino sotto forma di monologhi di personaggi apparentemente irrelati.
Non a caso, il gran burattinaio che ne tiene insieme le fila, ascoltandoli, sembra essere proprio lui, Santiago Gamboa, mancano solo nome e cognome. Il narratore è, infatti, uno scrittore colombiano che ha svolto in passato mansioni di console onorario in Asia e il suo racconto prende addirittura avvio dal personaggio di un romanzo precedente, la Juana di Preghiere notturne (2012, in Italia 2013), che gli dà un misterioso appuntamento in un albergo di Madrid. Si potrebbe quasi affermare che l’autore applichi alla narrativa il sistema ramificato delle serie televisive: se quello che ci crea dipendenza quasi febbrile nei loro confronti è lo sviluppo approfondito della psicologia dei personaggi e un’attenzione maniacale agli indizi metonimici, Gamboa fa lo stesso qui, prendendosi tutto il tempo per sviluppare quattro traiettorie – e relativi corollari o subplots – narrate in parallelo dalle voci dei loro protagonisti, prima di farle convergere in un’unica avventura finale per la quale fungerà da cerniera il personaggio di Juana, i cui trascorsi si danno per scontati, come alludendo a una “stagione” precedente. Questo accostamento con la struttura delle serie tv non intende screditare l’opera di Gamboa: la tempistica “a lento rilascio” con cui le diverse trame via via s’intersecano, suscitando sorpresa e curiosità nel lettore, conferma invece la professionalità narrativa dello scrittore colombiano, mai smentita fin dal suo esordio con Perdere è una questione di metodo (1997, in Italia 1998, poi 2001).
Tornare in Colombia
C’è la vicenda di Manuela Beltrán, giovane poetessa originaria di Cali che studia a Madrid sognando di tornare in Colombia per vendicarsi del compagno e poi assassino della madre, un narcotrafficante che l’ha stuprata da bambina; c’è Tertuliano, un filosofo argentino neofascista dalle aspirazioni messianiche che vorrebbe purgare l’umanità da tutti i mali, sedicente figlio di papa Bergoglio e di una militante montonera; c’è Ferdinand Palacios, sacerdote dall’oscuro passato di paramilitare che aspira a lavarsi dalle proprie colpe in una lunga confessione; e c’è il console scrittore il quale, mentre attende di scoprire il motivo della convocazione a Madrid, riflette sui problemi della contemporaneità – fra il declino della civiltà europea, il terrorismo islamico e i movimenti migratori –, nonché sull’arte della fuga e del viaggio grazie al libro che sta scrivendo su Arthur Rimbaud, quinto protagonista di Ritorno alla buia valle. È forse soltanto questa arcinota vicenda biografica a non integrarsi con naturalezza al corpo del romanzo, sebbene sia chiaro il contrappunto metaforico che l’autore vuole dare alle avventure dei suoi personaggi fittizi, convocando il poeta maledetto per ricordarci che stiamo assistendo alle peripezie di alcuni fuggiaschi i quali tentano un impossibile ritorno. Venuti in Europa per motivi diversi, ma tutti assimilabili a una fuga dalla violenza, tornano insieme in una Colombia dov’è “scoppiata la pace” con il pretesto di aiutare Manuela a vendicarsi. In verità ognuno di loro è alla ricerca della propria Itaca, pur sapendo che il ritorno comporta sempre qualcosa di drammatico poiché, come sottolinea l’autore, tornare è impossibile perché noi non siamo più gli stessi e non lo sono neppure i luoghi dove vogliamo tornare. Forse l’unico vero ritorno sarà il viaggio che il console e Juana compiranno infine ad Harar – il luogo che il poeta non riuscì più a rivedere – per conto di Rimbaud, spinti dalla comune passione per la sua opera visionaria, che secondo un Gamboa forse troppo entusiasta ha cambiato la storia di tutta la letteratura occidentale. Malgrado il suo fascino, è proprio la parabola del poeta vagabondo, di cui l’autore si avvale per riflessioni metaletterarie e autobiografiche sul proprio mestiere, a contribuire a quella sensazione di esorbitanza di cui si diceva all’inizio, un troppo detto che perfino le serie tv americane ci hanno insegnato a evitare.
vittoria.martinetto@gmail.com
V Martinetto insegna letteratura ispano americana all’Università di Torino