Scrivere di lato, spiando il mondo
Intervista ad Anna Boccuti di Chiara D’Ippolito e Camilla Valletti
Julio Cortázar è uno scrittore difficile, come Perec. Eppure di lui si parla moltissimo, a proposito e a sproposito. Perché questo revival? Negli ultimi anni, in particolare, Cortázar è diventato autore di culto. C’è una caratteristica o qualità peculiare della sua letteratura che genera questa devozione?
Ho l’impressione che si tenda a leggere prevalentemente un certo Cortázar, e quindi alla fine a circolare è una versione un po’ depurata di quei concetti più complessi, più metafisici, metaletterari. Abbiamo infatti un Cortázar accessibile a tutti e un Cortázar più esoterico, se vogliamo dirla così, ma come tutti i grandi classici anche la sua opera contiene tanti livelli di lettura, e proprio questa varietà di elementi consente di conoscerla in molteplici modi e con diversi gradi di comprensione. In Rayuela, per esempio, trovi tante cose, trovi fondamentalmente una storia d’amore e di eros: il romanzo si apre proprio con il protagonista, Horacio, che si chiede se incontrerà la Maga e ricorda uno dei loro giochi strampalati (il funerale di un ombrello rotto nel Parc Montsouris, a Parigi) e questo è senz’altro un fattore che avvince il lettore, anche il lettore profano, che non è interessato a tanti discorsi teorici, filosofici… Poi, però, poco dopo ti ritrovi a leggere delle inquietudini esistenziali ed esistenzialiste di Horacio Oliveira, argentino a Parigi, oppure tutti gli appunti dello scrittore Morelli su come si dovrebbe fare letteratura, oppure le infinite discussioni sul jazz, la pittura, la poesia del Club del Serpente: c’è un mondo intero in Rayuela e tu puoi scegliere che cosa illuminare. Secondo me di recente si è recuperato un Cortázar che non esiterei a definire più “pop”, quello che attraverso il gioco (che è un altro elemento centrale di Rayuela e di tutta la sua opera) parla anche di un modo di attraversare la vita e ti propone la letteratura come un esercizio vitale. Penso per esempio a Storie di cronopios e di famas, di cui emergono subito gli aspetti più fruibili, anche se neppure i cronopios e i famas sono poi così banali: anzitutto, si tratta di racconti di genere tutto sommato non canonico, e poi, è vero che sono un inno gioioso all’anticonformismo, ma nascondono tra le righe anche un monito contro la tendenza a cercare per forza interpretazioni, spiegazioni, contro la tendenza a esercitare la logica… oppongono resistenza, direi, ad essere compresi del tutto.
Ci sono stati poi alcuni anniversari, come il ventennale della morte, nel 2004, o il centenario della nascita, nel 2014, che l’editoria ha sfruttato per recuperare Cortázar, la sua figura e la sua opera. Si è trattato forse di una fortunata congiunzione: i tanti Cortázar contenuti in Cortázar, i tanti livelli di livelli di lettura ai quali lo si può accostare e alcune date importanti.
Quando parlo del lettore di Cortázar intendo il “lettore complice”, come lo stesso Cortázar lo ha chiamato. Perché sia nei racconti sia nei romanzi, l’autore argentino scrive tenendo conto di un lettore disposto a partecipare attivamente alla costruzione del senso, quindi ti chiama sempre in causa. Questo è evidente in Rayuela sin dall’inizio, già a partire dalle due tavole di orientamento, che ti propongono più itinerari di lettura, almeno due diversi possibili modi di giocare al gioco del mondo, oppure dalla sua “frammentarietà”, che fa sì che il romanzo includa testi di natura eterogenea, non per forza letterari: citazioni di manuali di botanica, di saggi di antropologia, di guide turistiche. Che ci fanno lì? Come dialogano con quanto viene prima? L’autore, insomma, ti chiama a fare qualcosa di concreto (scegliere che direzione vuoi seguire), a porti delle domande, a lavorare non solo alla decifrazione del senso di quello che ti sta dicendo (e questo lo fa ogni autore col suo lettore modello) ma alla creazione stessa del testo.
La teoria del romanzo che Morelli espone in Rayuela lo spiega benissimo: al contrario del romanzo psicologico, o del romanzo che vuole raccontarti un evento e trasmetterti un messaggio, in cui il mondo viene descritto e il lettore passivamente segue la descrizione e gli eventi, il narratore immaginato da Morelli non ti dice cosa pensano e cosa vedono i personaggi, ma fa in modo di mettere te, lettore, al posto loro, fa in modo che tu veda con gli occhi dei personaggi e ragioni con la testa dei personaggi. Quindi sei tu, lettore complice, a ricostruire l’esperienza dei personaggi attraverso la lettura. Forse l’essenza del sentimento speciale che suscitano i testi di Cortázar sta proprio nell’invito e nella sfida che implica giocare alla letteratura come invenzione di nuove regole per il mondo, in cui tu, lettore, sei una parte attiva.
Infine, non bisogna dimenticare che c’è una qualità unica della lingua di Cortázar: un testo di Cortázar lo riconosci subito per la qualità poetica, evocativa, immaginifica della sua scrittura (basta sfogliare le prime pagine Rayuela per avere un’idea di cosa intendo). La sua voce si percepisce, si riconosce sempre proprio per l’attenzione che riserva alla lingua letteraria, quasi cesellata ma senza mai scadere nell’artificiosità. E soprattutto, il linguaggio stesso viene impiegato da Cortázar per veicolare significati. Sempre prendendo Rayuela come esempio: il gioco che nel romanzo si mette in scena, questo tentativo di andare oltre (oltre le convenzioni del mondo in cui viviamo, oltre la letteratura come la conosciamo), avviene in primo luogo nella lingua, rimodellando la sintassi o la grammatica: Horacio e la Maga inventano una lingua nuova per parlare mentre fanno l’amore, il gliglico; Horacio aggiunge le “h” dinanzi ai concetti solenni in funzione ironica e smitizzante: “l’hunità” “il grande haffare”, “l’hego e l’altro”.
Il gioco del mondo è stato scelto come romanzo chiave alla prossima edizione del Salone del libro: perché il contro-romanzo di Cortázar è un “libro sconfinato e invito alla ribellione, alla fuga e all’avventura”, e anche perché Cortázar “ha fatto della mescolanza di culture la propria forza”, cosa che lo ha reso “uno dei migliori nel mettere in pratica una capacità che è un dono, quello della creazione fantastica”. Concorda con queste affermazioni? Può spiegarcene il senso?
Concordo in parte con la prima affermazione, perché, come dicevo prima, c’è una lettura “pop” di Cortázar, che privilegia quella parte della sua opera più luminosa e gradevole, però Cortázar si sofferma anche su tanti aspetti cupi, tormentanti, dolorosi della vita. Rayuela, in fondo, è anche un romanzo sull’impossibilità dell’amore, sulla marginalità, sulla follia, ma nel senso più drammatico del termine. È vero che è un invito alla ribellione e alla fuga come espressioni di non conformismo, di non adeguamento, però il protagonista di Rayuela, Horacio, non è propriamente un ribelle nel senso positivo del termine: è un personaggio cinico, è un personaggio in cui l’idealismo sfocia in una deriva nichilista, sta tutto il tempo a chiedersi se l’azione abbia un senso, non arriva al cuore delle cose. Quindi Rayuela è anche un romanzo molto corrosivo, al contrario di altre opere cortazariane dove invece ritroviamo una spinta creativa, costruttiva, per esempio nei testi più apertamente umoristici, Il giro del giorno in ottanta mondi, ad esempio, o le storie dei cronopios. Qui invece c’è un processo di demolizione costante, e questo demolire arriva al punto che il finale è ambientato in un manicomio, Horacio tenta il suicidio e sembra sprofondare nella follia. La ricerca dell’assoluto, dell’autentico, si rivela insomma fallimentare. E infatti il romanzo si chiude in modo circolare, con un capitolo che rimanda all’altro, e direi che la circolarità non è esattamente solo un invito all’avventura. È un invito a uscire dai binari prefissati, e quindi a cercare il proprio cammino all’interno della convezione e a rompere con la convezione, con la Grande Abitudine, però al tempo stesso mostra quelli che sono i rischi di uscirne, l’incertezza del risultato. Per quanto riguarda l’aspetto della mescolanza di culture, Cortázar è effettivamente un argentino in Francia, vive lo straniamento dell’esiliato in Europa, anche se dall’Argentina era andato via volontariamente e alla fine della sua vita sarà più spaesato a Buenos Aires che a Parigi. Però tutte le sue letture di riferimento sono i grandi classici inglesi e francesi, il suo patrimonio culturale è la tradizione occidentale. Tra l’altro, gli argentini sono in America Latina sicuramente quelli con le radici europee più evidenti, perché le popolazioni autoctone furono sterminate e dalla fine del XIX secolo si decise a tavolino l’europeizzazione del paese, favorendo l’immigrazione. Quindi, non so se identificherei Cortázar come colui che pratica la mescolanza di culture, perché vedo la cultura argentina (e ispanoamericana, in genere) e quella europea in continuità.