dal numero di marzo 2019
di Rossella Milone
È annosa e complessa la questione che riguarda i racconti, creature misteriose, che nascondono sempre un’anima impalpabile. Questa impalpabilità, è uno degli aspetti che penalizzano il racconto come forma letteraria, perché, prima di tutto, è poco comunicabile. Riuscire a comunicare bene un libro, per portarlo ai lettori, è di vitale importanza per chi su quel libro investe. E le raccolte di racconti spesso non si piegano alle esigenze comunicative del mercato: vago il plot, troppi i personaggi, storie frammentate. Le raccolte – se escludiamo quelle antologiche di autori classici, o le operazioni mirate, come i racconti di Natale, per esempio – subiscono un pregiudizio che penalizza la loro nascita, la loro distribuzione, la loro vendibilità, creando così un perpetuo circolo vizioso: meno racconti si pubblicano, meno se ne leggeranno; meno se ne leggono, meno se ne pubblicheranno. La platea, dunque, è poco disposta a leggerne, proprio perché il mercato non è abbastanza attento a educare e abituare il lettore alla lettura di racconti.
È interessante considerare che il vizio non si innesca soltanto tra i lettori, e nemmeno solo nella filiera editoriale, ma, in particolare, nel rapporto che c’è tra i due: una profonda diffidenza reciproca che ha causato, negli anni, un diffuso allontanamento dei lettori dalla forma breve. Molto spesso mi capita di parlarne con vaste comunità di lettori e ad emergere è appunto questa ritrosia, la sensazione che il racconto non ti coinvolgerà come farebbe un romanzo, al quale ci si affida con poche remore. Col racconto, si teme di rimanere delusi, inappagati, soli. E un libro si compra proprio perché non vogliamo sentirci soli. Il romanzo, nella percezione della maggior parte dei lettori, è disposto ad aspettarti, ad accompagnarti, a recuperarti lì dove ti sei perso. Il racconto, invece, per la sua struttura e per la sua tipica fisiologia ellittica, ci chiede uno sforzo maggiore, ci costringe a colmare i vuoti, ci vuole partecipi e in apnea, pretende la nostra inclusione e non soltanto la nostra immedesimazione. Il racconto non rassicura e per questa sua caratteristica il mercato è poco disposto a correre rischi.
Il problema non riguarda unicamente il mercato editoriale italiano. Anche in Francia, per fare un esempio, i libri di racconti coprono meno della metà del mercato. Cosa che non accade in America Latina, luogo in cui la lettura di racconti coincide con quella dei romanzi, dove la tradizione dei cuentistas (Borges, Cortázar, Quiroga, Mujica Lainez…) ha creato una comunità di lettori strutturalmente attrezzata ad affrontare e godere della lettura di racconti. Non che l’Italia (come la Francia, se pensiamo solo a Maupassant o Auguste de Villiers de L’Isle-Adam) non possa vantare una tradizione di scrittori di narrativa breve di forte spessore (pensiamo solo a Dino Buzzati, ad Anna Maria Ortese o Tommaso Landolfi). Ma questa tradizione, a un certo punto, si è svilita, come se lentamente si fossero perse le sue impronte nel nostro bagaglio formativo letterario.
Negli ultimi tempi, però, questa tendenza pare essersi un po’ modificata; pare che il racconto stia godendo di nuova linfa vitale. La short story è tornata a far parlare di sé un po’ ovunque, suscitando un’inedita attenzione per la forma breve attraverso nuovi premi letterari, spazi dedicati o collane specifiche; soprattutto da quando autrici come Alice Munro e Lydia Davis hanno vinto nel 2013, rispettivamente, il Nobel e il Man Booker International Prize. Anche in Italia sono nate moltissime realtà che dedicano spazi di critica approfondita ai racconti: pensiamo all’Osservatorio sul racconto Cattedrale, oppure alla rivista “The Florentine Literary Review”. Oppure alla neonata casa editrice Racconti Edizioni che pubblica soltanto racconti, sfidando la profezia che si autoavvera secondo cui “i racconti non vendono”. Anche case editrici ormai ben radicate, che vantano un’attività di sdoganamento della forma breve, insistono nella loro ricerca: pensiamo a minimum fax (che nel 2018 ha portato nella cinquina finalista del Campiello i racconti di Davide Orecchio), oppure al lavoro inestimabile di scoperta che compie Sur nel solco sudamericano, o alle bellissime raccolte che negli ultimi due anni ci ha regalato la casa editrice NN. Sono tutte realtà che approfondiscono il lavoro che pure compiono i colossi editoriali, incidendo, però, in modo più capillare, in quella fetta di mercato più propensa alla costruzione duratura e strutturale di un atteggiamento benevolo verso la forma breve.
Buone notizie, dunque. Ma, si sa, i pregiudizi sono duri a morire, e le cose cambieranno davvero quando i diritti delle raccolte di racconti, in termini economici, varranno come quelli dei romanzi. Quando, cioè, si sarà disposti a riconoscere un’effettiva parità tra i generi.