Wanderung di tradizione romantica
di Riccardo Morello
Peter Handke
LA LADRA DI FRUTTA
ed. orig. 2017, trad dal tedesco di Alessandra Iadicicco,
pp. 426, € 20, Guanda, Milano 2019
L’ultima fatica letteraria di Peter Handke, recentemente insignito, non senza strascichi polemici, del premio Nobel per la letteratura, il romanzo La ladra di frutta, è il tassello di un mosaico molto più ampio che l’autore va tessendo da anni, il disegno di una rinascita dell’epica; si tratta di un progetto inattuale e ambizioso, salvare dall’insignificanza o dalla fungibilità planetaria la realtà più autentica, il mondo che ci circonda o almeno quel quid di natura, non certo incontaminata, ma pur sempre natura, con la quale abbiamo a che fare, specialmente nella nostra vecchia Europa e soprattutto nei luoghi più inaspettati, marginali e periferici. Ad esempio quella banlieu parigina, la Baia di Nessuno, nella quale da anni lo scrittore ha preso dimora e da cui ancora una volta riparte per le sue flâneries. Come in un film di Wenders, di cui Handke è stato collaboratore, i suoi personaggi intraprendono viaggi che sono sempre itinerari misteriosi dell’anima. Handke non costruisce però alcuna trama narrativa – anzi rifugge volutamente dall’intento di fornirci una “storia” – e spiazza di continuo il lettore cambiando prospettiva narrativa, per esempio da quella autoriale e semiautobiografica dell’inizio a quella della parte centrale incentrata sulla figura appunto della “ladra di frutta” (la figlia dell’autore?). Tutti gli interrogativi sono destinati a restare insoluti, leggere Handke significa rinunciare a risposte o soluzioni, abbandonare la fretta, e lasciarsi cullare dalla sua prosa nervosa e avvolgente, piena di arresti e ripartenze, di incertezze e folgoranti illuminazioni, dove ovviamente ciò che conta non è il was ma il wie, non la meta ma le modalità per raggiungerla. Il viaggio si snoda dalla periferia parigina, con le sue asettiche città satellite, verso la Piccardia, una delle antiche regioni storiche della Francia, il “granaio dei re”, l’altopiano poco popolato e un po’ marginale dove le peregrinazioni dei personaggi si perdono tra vecchi paesini in disarmo, linee ferroviarie secondarie, macchie inselvatichite, attraversando esperienze quasi ossimoriche, la vita, l’amore, la giovinezza, la festa, ma anche la morte.
C’è naturalmente il caos contemporaneo, di cui Handke spesso è un acutissimo osservatore, talvolta poco politicamente corretto ma proprio per questo autentico, come quando il narratore confessa di girare in metro con un pugnale magrebino sotto la giacca per difesa, o nella sua descrizione infastidita e rancorosa dei compagni di viaggio immersi nell’ottundimento da ben noto abuso di telefonini. L’occhio di Handke indugia impietosamente sul guazzabuglio etnico delle periferie francesi e certamente non abbellisce nulla, non giudica ma neppure nasconde le brutture, non indulge alla retorica imperante che impone di magnificare comunque il meticciato. Questo mi pare un elemento interessante della sua lettura del presente.
Ciò che forse rende più ostico l’approccio al lettore italiano, nonostante l’ammirabile sforzo traduttivo di Alessandra Iadicicco, è la accentuatissima letterarietà di Handke. Parafrasando Kafka, si può dire che anche Handke sia in tutto e per tutto letteratura. Un esempio: la ladra di frutta e il suo compagno di viaggio – ma si badi bene, è un viaggio a piedi, è una Wanderung di tradizione romantica – si rifugiano per sfuggire a un temporale in un edificio isolato che si rivela un Hotel ormai in disuso, sul punto di chiudere, dove vengono accolti da un oste. Chi conosce a fondo la letteratura austriaca drizza le antenne. È la parafrasi dell’episodio iniziale del grande romanzo di Stifter Tarda estate (1857), il capolavoro che Nietzsche apprezzava, uscito nello stesso anno di Madame Bovary. Solo che qui il fatto non è centrale ma periferico e l’incontro anziché decisivo nel senso del romanzo di formazione, si perde invece tra altri incontri e lacerti di conoscenza molto meno sicuri.
Spesso chiamato in causa da Handke, Stifter aleggia anche in questo romanzo: egli sognava di scrivere come Flaubert un livre sur rien, che procedesse solo per la forza della sua scrittura. Handke pare l’esatta realizzazione di questo sogno del romanzo ottocentesco che supera se stesso e confluisce nel grande mare dell’epica. Come già accennato la traduzione è molto fluida. Forse a tratti (come nel sottotitolo Einfache Fahrt ins Landesinnere) sarebbe stata preferibile una scelta più letterale (“Viaggio di sola andata nell’entroterra” anziché “Un semplice viaggio”), ma sono dettagli di un discorso stilistico che l’autore persegue con acribia, moltiplicando i punti di vista, spezzettando il testo in sequenze, prismi che rimandano certo a una visione unitaria, ma ci impediscono qualsiasi approccio tradizionale identificativo e quindi rendono plausibili molteplici interpretazioni.
Handke è uno scrittore stupefacente, o lo si ama o lo si odia, presumibilmente per le medesime ragioni; le sue pagine però recano senza dubbio le stimmate del nostro tempo, il qui e ora della nostra Vecchia Europa, più di qualsiasi altro autore. Attraversando la regione i protagonisti avvistano in lontananza castelli che appartengono al paesaggio e al tessuto storico di questa terra ma, avverte il narratore, “alla larga dalla storia. Ecco un’altra regola cui attenersi: ciò che è storico al massimo si deve sfiorare da lontano”. E così i viandanti di Handke vagano verso un altrove dove “il labirinto della prateria trapassa nel labirinto della città”, vivono con commozione religiosa momenti di sopravvivente ritualità comunitaria, si abbandonano al canto, alla musica e alla danza, ma soprattutto sono alla ricerca di spazi di silenzio e di ascolto per percepire, oltre il brusio del mondo, qualche traccia di autenticità.
riccardo.morello@unito.it
R. Morello insegna letteratura tedesca all’Università di Torino