Tradurre in contemporanea due giganti: George Saunders e Paul Auster

Due rette parallele tagliate da una trasversale

di Cristiana Mennella

dal numero di gennaio 2018

Lo ammetto: guardarsi da fuori, osservare e descrivere a posteriori un percorso irregolare come quello della traduzione, che invece si dipana tutto dentro il testo, mi appare spesso un esercizio pleonastico. Voler “capire come”: occorrono un distacco e un’obiettività da referto clinico che sembrano in contraddizione con lo sguardo sprofondato che ha il traduttore nel corso delle giornate che diventano mesi e mesi di convivenza con un testo. Se poi, come nel mio caso, si tenta di ripercorrere la traduzione in (quasi) contemporanea di due romanzi usciti nel 2017 a stretto giro l’uno dall’altro, il senso di sdoppiamento si moltiplica, mi pare di fissare una persona che mi fissa a sua volta. Non la riconosco, ma sono io. Forse mi conveniva tenere un diario, ma so che sarebbe al di sopra delle mie forze, da traduttrice sono già contenta di scrivere quello che è già stato scritto.

Provo a ricostruire partendo da un dato concreto, diciamo pure prosaico, mai trascurato però da chi fa il mio mestiere: la consistenza fisica di un libro, due, nella fattispecie. Quante pagine? Scritte come?
Lincoln in the Bardo, di George Saunders, circa 350 pagine, moltissimi spazi bianchi, capitoli anche di una riga soltanto. 4321, di Paul Auster, 880 pagine, gli spazi bianchi non esistono, tranne che nelle pause rivelatrici tra un capitolo e l’altro, sono anneriti dai caratteri fittissimi. Già dall’impatto visivo si capisce banalmente che le strade da seguire in traduzione saranno come le proverbiali rette parallele che non si incontrano mai. Farò prima a rintracciare i pochi elementi esteriori che i due autori hanno in comune: Saunders e Auster sono tutti e due americani, tutti e due scrittori affermati – il primo da meno tempo, anche per motivi anagrafici , tutti e due finalisti al Man Booker Prize 2017 (vinto poi da Saunders lo scorso ottobre) con i rispettivi romanzi, e tutti e due in un momento topico della loro carriera letteraria. Saunders, che finora aveva scritto solo racconti, era atteso al varco della prova romanzo. Auster, dopo un non breve periodo in cui ha prodotto solo testi “a passo corto”, si è riaffacciato al romanzo con un’opera monumentale. Entrambi, con queste ultime prove letterarie, hanno forzato i paletti della narrazione, facendo un salto qualitativo e quantitativo rispetto alla loro produzione precedente. Fine delle somiglianze e inizio delle differenze.

Un libro sulla vita terrestre e un libro sull’aldilà

Come ho già accennato, le differenze sono tante ed evidenti, quasi plateali, s’impongono a occhio nudo. Ovviamente io, in quanto traduttrice, mi sono focalizzata su quelle stilistiche, grazie alle quali dovrei individuare un modo di procedere e portare a casa il risultato. Però, prima di addentrarmi nelle differenze, vorrei fermarmi un attimo e individuare l’unico brevissimo momento in cui gli autori sono tutti uguali ai miei occhi e alle mie orecchie: la fase aprioristica in cui li espongo allo stesso trattamento, prima che comincino subito a dettarmi le loro regole esclusive. È una fase di partenza che, ad analizzarla, sembrerebbe deformazione professionale al contrario: non riuscire a leggere mai il libro da cima a fondo prima di tradurlo, ma leggerlo e tradurlo passo passo (ormai siamo sempre più numerosi, credo, a macchiarci di questo peccato che infrange i comandamenti del bravo e coscienzioso traduttore). Sarà che ci tengo a conservare, dalla prima all’ultima pagina, anche la dimensione della semplice lettrice. Il primo approccio non è solo consapevole, preventivo, chirurgico, ma anche “serendipico” e non può prescindere da momenti di scoperta, di sorpresa. In parole povere non voglio annoiarmi e tantomeno rovinarmi la festa e provo a scongiurare il pericolo grazie a un passaggio che, personalmente, mi predispone meglio all’ascolto e che, perlomeno nella mia esperienza, contribuisce a svelare i segreti di un testo, dei quali bisognerà impadronirsi per poi nasconderli di nuovo e lasciarli scoprire al lettore italiano.
Durante il periodo di compresenza sul mio tavolo di lavoro, le differenze tra 4321 e Lincoln in the Bardo non potevano che esasperarsi. Un libro sulla vita terrestre e un libro sull’aldilà. Un romanzo su una persona che vive tante vite e un romanzo su una miriade di morti che agognano la vita in assoluto. Una voce sola che ingloba tante voci e una miriade di voci (162 per essere precisi) che si trasformano in un coro. E infine la constatazione (e relativo panico, con il quale non vorrei tediare il lettore) di dover tradurre due libri che sembrano letteralmente darsi contro.

Parto da Lincoln in the Bardo perché ho iniziato da lì. Trovarsi davanti un romanzo, sì, ma esploso in mille pezzi. Eccone un campione:

“All’epoca, lì sul carro da malato, essendo ancora libero da ogni lacciuolo, scoprii che potevo lasciare brevemente la mia cassa da malato, guizzare via e sollevare piccole tempeste di polvere, fracassai perfino un vaso, un vaso in veranda. Ma mia moglie e quel medico, intenti a parlare del mio incidente, non se ne avvidero.
E chi se li incu…a! Serpi ingrate, non ci possono incolpare di un c… finché non si mettono nei nostri panni, c… e nessuno di quelle due testine di c… s’è mai messo nei nostri…
Le composizioni floreali della storia! Quelle torreggianti esplosioni cromatiche, così copiose: subito gettate via, a seccarsi e ad appassire al fioco sole di febbraio. Le carcasse animali – la “carne” – calde e coperte di ramoscelli, su costosi piatti da portata, fumanti e succulente: condotte chissà dove, ormai erano scarti, di nuovo semplici pezzi di cadavere, dopo la breve elevazione al rango di cibo delizioso! I mille abiti, religiosamente preparati quel pomeriggio, i granelli di polvere tolti con cura dalla porta, gli orli raccolti per il viaggio in carrozza: dove sono ora? Ne esiste uno esposto in un museo? Qualcuno ancora conservato nelle soffitte? La maggior parte sono polvere. Come le donne che li indossarono con tanto orgoglio in quel fugace momento di fulgore.
Io sono Willie Io sono Willie Io sono perfino ancora
Non sono
Willie
Non willie ma in qualche modo
Meno
Di più”

Stravolto nella forma, smembrato e ricomposto, trasformato in una sorta di scrittura scenica animata da personaggi che dialogano in una lingua pseudo ottocentesca con spruzzate contemporanee, o che si alternano sulla pagina con micro e macro monologhi forbiti o sgrammaticati, immaginifici o rozzi, aulici e modernisti, apparecchiati insieme a uno spezzatino di documenti storici autentici e inventati dall’autore. Succede che, spiazzata dall’andamento desultorio, la lettrice “ingenua” in vena di scoperte preferisce farsi da parte e lasciare tutto nelle mani più rassicuranti della traduttrice. Le prove tecniche sono cominciate subito e hanno soppiantato la semplice lettura.

Terminare le prove tecniche (la prima stesura in italiano) di Lincoln in the Bardo e passare a 4321 senza soluzione di continuità. Spostarsi sull’altra retta parallela senza potersi permettere una pausa, un calo di tensione fecondo. Vietata soprattutto l’ansia di tradurre Auster per la prima volta e in forma così intensiva e corposa. Mi sarà venuta in soccorso la semplice lettrice di cui sopra, quella in cerca di scoperte e di sorprese, che Lincoln in the Bardo aveva ricacciato in un angolo, quella più incline all’esperienza immersiva. Del resto Auster la serve su un piatto d’argento, a partire dall’incipit, dal primo capitolo sulla genealogia di Ferguson, il protagonista plurimo del romanzo, che viene al mondo solo in coda alla bellezza di trenta pagine in cui il lettore rischia quasi di scordarsi di lui: “E così nacque Ferguson, e per diversi secondi, una volta uscito dal corpo di sua madre, fu l’essere umano più giovane sulla faccia della terra”. La corrente ininterrotta di una sola voce avvolgente, periodi che avanzano e sospingono, si srotolano e si distendono senza disfarsi, per mezza pagina, anche per una intera. Lettura e traduzione procedono in scia: infilare una frase dietro l’altra, senza quasi fermarsi, sembra incredibile, dopo i salti e gli inciampi di Lincoln in the bardo.

Ma come si conciliano due modi di procedere diametralmente opposti? Non lo so, magari la coabitazione forzata (devo dire non lunghissima, perché Lincoln in the Bardo è un terzo di 4321) ha prodotto un circolo virtuoso, un equilibrio di lavoro che ha disinnescato la confusione (senza contare le scadenze e i tempi di lavorazione ristretti, che sanno riattivare anche i motori più ingolfati).

Tradurli insieme avrà fatto emergere in maniera più spiccata i rispettivi tratti distintivi, ma in fondo la letteratura parla di letteratura. Gli inventari di Ferguson in 4321, “Il millenovecentosessantanove fu l’anno dei sette enigmi, delle otto bombe, dei quattordici rifiuti, delle due ossa rotte, del numero duecentosessantasette, e della barzelletta che gli cambiò la vita”, mi ricordavano gli elenchi di Bevins, uno degli spiriti che popolano il Bardo di Saunders: “Perle, stracci, bottoni, la frangia di un tappeto, la schiuma di birra. Qualcuno che ti manda gli auguri; qualcuno che si ricorda di scriverti; qualcuno che si accorge che non sei per nulla a tuo agio (…) Allacciarsi una scarpa; fare il fiocco a un pacchetto; una bocca sulla tua; una mano sulla tua; il giorno che finisce; il giorno che comincia; la sensazione che ci sarà sempre un altro giorno”.

Lincoln in the Bardo ha affinato la percezione di certi snodi stilistici di 4321 e 4321 mi ha aiutato a seguire il flusso, a rintracciare la tessitura di Lincoln in the Bardo, che c’è, esiste e viene a galla strada facendo. Scesa temporaneamente dalla giostra linguistica di Saunders, potevo “serenamente” dispormi a sciogliere le circonvoluzioni di Auster, sgranare giochi di parole, partite di baseball/basket/football, sequenze cinematografiche, poesie francesi tradotte in inglese da capovolgere in italiano.
Ma questo, lo ribadisco, è solo il resoconto di un’esperienza. È solo una ricostruzione a freddo di due tracciati distinti (le rette parallele già citate: a me sarà toccato fare la trasversale?), una memoria panoramica e personale. Soggettiva. Com’è soggettiva e personale la formazione – permanente – a questo lavoro, come lo è inguaribilmente ogni traduzione.

cristianamennella@gmail.com

C Mennella è traduttrice dall’inglese