Le parole che cambiano il mondo
di Cristina Iuli
È stato Moby Dick a spingere Marilynne Robinson verso lo studio dei testi di Calvino, il teologo della chiesa riformata la cui profonda influenza sull’esperienza coloniale e post-coloniale americana fu determinante nell’evoluzione del pensiero, della cultura e della letteratura del nuovo mondo, innervandoli di un persistente, ininterrotto dialogo con le Scritture che trascende la professione di fede individuale dei singoli scrittori e si manifesta, secondo Robinson, nella testimonianza di una matrice culturale comune, condivisibile e propria all’esperienza americana: “Una fonte di significato speciale a cui attingere, che può trasformare una morte oscura in un martirio e un gesto di perdono in un atto di grazia” (The Book of Books: What Literature Owes the Bible, “New York Times”, 22 dicembre 2011). Questo legame profondo, che collega i classici alla teologia, talvolta alla metafisica, si rivela nell’assunzione e nella drammatizzazione letteraria e poetica delle questioni fondamentali sollevate dalla cristianità: il mistero profondo dell’esistenza e dell’Essere, il male ineludibile, il dono del bene, la speranza e la colpa, la salvezza e la dannazione, il giudizio e la giustizia, la grazia, la maledizione della solitudine, la verità. I grandi testi di Emerson e Thoreau, Melville e Dickinson (e Shakespeare, Faulkner e Frost), di cui Robinson rivendica l’importanza nella propria formazione, esplorano questi stessi interrogativi e mettono alla prova le Scritture, ma con la consapevolezza del doppio vincolo che costringe la loro impresa conoscitiva: da un lato infatti essi si impegnano in una ricerca del significato istituita nei termini della prospettiva protestante entro la quale si muovono; dall’altro, possono farlo solo per mezzo di un linguaggio e di una forma immanenti, cioè per definizione inadeguati a sciogliere il mistero dell’esistenza o a trasmettere la natura dell’esperienza: condizioni a cui i testi possono solo far cenno, lasciando affiorare nelle loro splendide trame i propri limiti gnoseologici. Per questa ragione, sostiene Robinson, questi testi non sono né metafore né allegorie, ma vanno visti come dialoghi socratici che la letteratura istituisce con le Scritture nell’instancabile ricerca di un significato non già presupposto, ma incalzato delle domande e reso comprensibile dalla bellezza. Già al centro delle riflessioni dei trascendentalisti, dunque, la relazione tra il linguaggio, la natura della fede e la riflessione sulla forma della conoscenza è amplificata dall’attenzione che Robinson rivolge al potere di quelle parole “che hanno la capacità di cambiare il modo in cui percepiamo noi stessi e il nostro posto nel mondo”, parole tanto annunciate dalle Scritture, quanto incarnate nell’ordinarietà mesta o dannata di vite marginali come quelle esemplificate dai personaggi della sua tetralogia: due moribondi pastori presbiteriani, un amatissimo e lucente figliol prodigo, una sorta di Maria Maddalena convertita, una donna di mezza età schiacciata dal risentimento e dalle contraddizioni di una vita in apparenza pia, e tutti i loro figli, congiunti e avi posti da Robinson a vari livelli di incertezza nel teatro della predestinazione – altro elemento cruciale in questo polittico di romanzi che racconta storie individuali e familiari di caduta e grazia. Sono parabole e, soprattutto, sermoni, i più popolari tra i generi teologici, a fornire a Robinson la materia principale e il lessico composto delle sue narrazioni irresistibili.
Non solo perché un buon sermone – accessibile a tutti – trasforma ciò che è già noto in conoscenza profonda, ma anche perché la predicazione cristallizzata in aneddoti è un momento straordinario e prezioso nel quale “qualcuno in buona fede cerca di parlare di qualcosa che davvero conta ad altri che in buona fede cercano di ascoltare” (The Givenness of Things, 146). Parlano prevalentemente per sermoni e parabole non solo i reverendi di Gilead – John Ames e Robert Boughton – e i loro colleghi di Saint Louis e di Memphis – il reverendo Hutchins e il pastore battista Miles; anche la voce di Jack, nelle sue sofferte provocazioni alla normatività crudele e frustrante delle Scritture è sermonale, mentre figure ed esempi dalle parabole costellano le riflessioni di Glory in Casa e sono illuminate dalle azioni di Lila redenta in Gilead e nel romanzo che porta il suo nome. La lettera-romanzo Gilead, che il vecchio reverendo Ames scrive al figlio perché le sue parole lo raggiungano quando questi sarà diventato grande, si configura – anche metaletterariamente – come un Sermone dei Sermoni, dando sostanza alla tesi secondo cui le opere di Robinson vanno lette come architetture di una “teopoetica” che non ha eguali nella letteratura americana contemporanea (forse con la sola e parziale eccezione di alcuni romanzi di Cormac McCarthy).
Ma è la teoria della predestinazione la materia prima teologica declinata dalla grande scrittrice nelle caratterizzazioni dei personaggi e delle loro vicende da una molteplicità di angolazioni che impediscono a chi legge di classificarli come redenti o irredimibili, evidenziando così quanto profondamente, nella visione calvinista di Robinson, le categorie “salvezza” e “dannazione” siano misteriose agli occhi dei mortali. La destabilizzazione di criteri in base ai quali formulare giudizi e anticipazioni sul destino dei personaggi caratterizza la predestinazione come mistero precluso alla comprensione umana: non avendo accesso allo stato salvifico dei nostri simili qui e ora, non possiamo certo illuderci di conoscere la sorte della loro anima, o di poter comprendere il significato della sovranità di Dio e il suo ruolo nell’amministrazione della salvezza e della grazia. Si tratta di una visione liberatoria, benché forse teologicamente problematica, della dottrina calvinista, che consente all’autrice di modellare personaggi immensi come Jack Boughton – la cui storia dispiegata in tre dei quattro romanzi prende forma a partire dalla domanda: “se siamo peccatori predestinati, come possiamo sottrarci dal fare il male?” – e di guidare i lettori verso una comprensione più sottile e democratica di una teologia che istituisce Dio come “saggezza creativa espressa nell’Essere di tutte le cose” (Givenness) e concepisce l’esperienza come incontro dell’immagine divina in ogni cosa. Ogni incontro, afferma Robinson, lascia trasparire una realtà “così soffusa della gloria di Cristo – che per me significa grazia – che sono felice di assegnargli lo statuto di verità” (Scott Hoezee, A World of Beautiful Souls. An Interview with Marilynne Robinson). Della grazia – “Una parola senza sinonimi, un concetto senza parafrasi” (Givenness) – Robinson non svela il significato, ma regala a Jack l’incontro con una donna che gli rivela “l’altra metà della catastrofe”, ovvero “la conoscenza del bene”, forse proprio come antidoto all’acume maledetto di “uno che ha conosciuto la notte” (come Amleto e Ahab). La verità, invece, per questa scrittrice imprestata alla teologia, è avvolta nel fondamentale mistero che accomuna scienza e religione, conoscenza e fede come modelli di sapere analogamente limitati dalla capacità e incapacità proprie all’essere umano, un essere al centro di un universo conoscitivo formidabile ma finito, non l’universo in senso assoluto (di cui non possiamo dire niente perché non siamo onniscienti).
La tensione tra la dimensione secolare e quella religiosa della conoscenza e dell’esperienza è utilizzata nel polittico anche per far emergere la violenza e la discriminazione razziale come effetti di un sistema di pregiudizio paradossalmente invisibile ai due colti e pii reverendi bianchi, e dunque ignorati nei loro sermoni. Eppure Gilead era stata fondata dagli abolizionisti nel 1850 per nascondere gli schiavi fuggiaschi. Ma benché non ci siano mai state leggi contro la mescolanza razziale in Iowa, nel 1956 Gilead è letteralmente “svuotata” di nativi e di afroamericani, questi ultimi fuggiti dopo che l’unica chiesa battista era stata distrutta da un incendio doloso. Quando Jack torna in paese per esplorare la possibilità di trasferirsi con la moglie e il figlio che ha avuto con lei, il reverendo John Ames, sua sorella Glory e – indirettamente – il padre, il reverendo Boughton, gli fanno capire che lì la sua famiglia interrazziale non sarebbe né benvenuta, né al sicuro. In Casa, Jack indugia per settimane nella casa del padre senza menzionare sua moglie o suo figlio. Quando insieme alla sorella Glory e al padre guarda in Tv la polizia brutalizzare i manifestanti per i diritti civili in Alabama, sente il reverendo padre definire gli attivisti trasgressori della legge e piantagrane, e rimane in silenzio. Sembra che ai due reverendi non sia bastata una vita di sermoni per incontrare nell’esperienza la bellezza dell’immagine divina nei figli dell’uomo. Ma a Robinson questa ironia non basta. Grazie allo schema di raddoppiamenti e ritorni che mostrano fianco a fianco Robby Ames, il figlio del rispettato pastore bianco che tutti si aspettano diventi un giorno predicatore, e Robby Boughton Miles, figlio del matrimonio proibito di un peccatore bianco e di una donna nera in un’epoca di conflitti razziali, Robinson ci invita a guardare a questi due ragazzi come a due predestinati dal razzismo strutturale. Per fortuna, la sua visione calvinista ci invita anche a vedere due anime con pari opportunità di salvezza: chi può giudicare e chi può dirlo?
cristina.iuli@uniupo.it
C. Iuli insegna letteratura angloamericana all’Università del Piemonte Orientale