Personaggi dinamitardi nella glaciale immobilità vittoriana
di Antonio Bibbò
In una commedia di identità nascoste, tra i momenti più noti e divertenti ci sono i numerosi interrogatori. L’ultimo è quasi una parodia degli altri, perché Lady Bracknell non ha intenzione di rifiutare, per così dire, la mano di suo nipote Algernon alla giovane, e ricca, Cecily. Saputo però che lei non potrà sposarsi prima dei 35 anni, pronuncia una delle sue battute più note: “Trentacinque anni sono una gran bella età. La società londinese è piena di donne dei più alti natali che, per loro scelta, sono rimaste trentacinquenni per anni. Lady Dumbleton per esempio, da quel che ne so, ha avuto trentacinque anni fin da quando ne ha compiuti quaranta, il che è avvenuto ormai diversi anni fa.” Questa perfetta commedia può vantare una simile eterna giovinezza. Una delle pièce più movimentate e al contempo più raggelanti di Wilde in cui, non a caso, lo spergiuro impostore alla fine scoprirà di chiamarsi davvero (perché è l’anagrafe qui a seguire la vita) Ernest. Tutto è fermo nella società tardo-vittoriana, nel falso movimento della vicenda che non invecchia.
Ci si ritrova direttamente dalle parti di Il ritratto di Dorian Gray: per un momento si può immaginare Dorian non come il giovane Faust senza scrupoli che viene a patti con la morte quotidiana, ma come una signora “imbellettata” ben oltre la mezza età e tutta presa a nascondere il falso segreto dei suoi anni. Dorian a lungo ci riesce, mentre qui i segreti sono continuamente disinnescati, oppure esplodono in faccia ai personaggi con sorprendente frequenza, sbadataggine e scarse conseguenze. Come se non contassero nulla. Tanto le cose torneranno a posto nel terzo atto. Questa apparente perfezione si rivela anche nelle boutade di Wilde, dal tono piano ed equilibrato, ma cariche a molla di contenuti anarchici: “Devi scusarmi se abbiamo fatto un po’ tardi, Algernon, ma non potevo non fare visita alla cara Lady Harbury. Non ci ero stata dalla morte di quel poveretto di suo marito. Non ho mai visto una donna tanto cambiata; sembra di vent’anni più giovane”. Le frequenti letture ad alta voce, non sempre – ahimé – solitarie, sono servite a calibrare questi scambi. All’inizio li trovavo ostici forse anche perché in Italia l’affettazione aristocratica è moneta poco corrente, e mi sono trovato a farmi ispirare dalle voci del passato, dell’alta borghesia dei telefoni bianchi cinematografici, da quelle frasi algide e ostentatamente doppiate (ecco: i personaggi di Wilde sembrano spesso attori doppiati appena appena fuori sincrono): dai vezzi come il “maman” che rimpiazza il “mama” inglese, alle frasi in cui l’elemento a sorpresa andrà lasciato detonare, per poi sorvolare con nonchalance. Ho usato verbi “esplosivi” perché la pièce è piena di deflagrazioni, metaforiche e non, ed è essenziale per il traduttore mantenersi in questo campo semantico. Quando Jack dice ad Algernon che il suo amico Bunbury è stato “exploded”, vuol dire che è stato “smascherato”, ma rimanda ai possibili “disordini a Grosvenor Square” che tanto preoccupano Lady Bracknell. E così ho voluto giocare, qui e altrove, su bombe, stragi e identità che vengono fatte “saltare”; e ricucire quella trama che suggerisce la parentela tra gli scandali della morale e le insurrezioni politiche, entrambi atti di ribellione allo status quo vittoriano.
I contrasti non sono solo politici. Cecily e Gwendolen, prima di diventare “sorelline” se ne daranno, verbalmente e con aplomb tardo-vittoriano, di santa ragione. Per la cittadina e sofisticata Gwendolen, le maniere un po’ grezze di Cecily saranno un facile bersaglio. E però Cecily le risponderà a tono quando le dirà, con sottile snobismo: “Oh, i fiori, Miss Fairfax, non sono nulla di straordinario, qui, proprio come la gente a Londra”. Avrebbero potuto essere anche “a buon mercato”, ma Cecily non farebbe mai l’errore di parlare di vil denaro. La sua parlantina è tra le più divertenti da tradurre: la diciottenne Cecily non “confessa” di avere vent’anni alle feste, ma “admit”, lo ammette, come se fosse vero, lo “lascia intendere”. Vivace com’è, poi, non vede l’ora di incontrare un “wicked man” (un mascalzone, “certo, forse un po’ licenzioso, ma soprattutto un “poco di buono”), eppure, come Gwendolen, è ossessionata dall’idea di sposare un uomo che sia “earnest/Ernest”. Le implicazioni sono note: Ernest si pronuncia come earnest, aggettivo che indica serietà, onestà, sincerità, convinzione, disciplina, passione, e racchiude le caratteristiche dell’uomo vittoriano. Ma le due vogliono solo sposare qualcuno che porti addosso la vuota etichetta della rispettabilità, e si comporti invece in modo frivolo. In italiano, Ernest è stato tradotto in diversi modi, tutti condivisibili, da Onesto a Franco. In altri casi invece si è tradotto l’aggettivo del titolo, ad esempio con il “fare sul serio” della prima traduzione italiana. La varietà ha dato luogo a una delle più sottili ironie: una commedia basata sulle etichette e sulla (imprevedibile, isterica) mutevolezza dell’identità, ha subìto un destino simile, cambiando titolo a ogni incarnazione, erigendo la fuggevolezza a sistema, sfidando la certezza dei repertori bibliografici nei quali si nasconde beffarda.Ho deciso perciò di onorare la tradizione italiana e variare, a mia volta, il titolo, non sperando di imporne uno nuovo, ma che cambi ancora. E ho deciso di mantenere il nome originale Ernest (una soluzione peraltro raramente adottata), rinunciando, in parte, alle allusioni più dirette: l’opacità del nome dà alle traduzioni la possibilità unica di aggirare i riferimenti immediati e presentare questa ricerca ossessiva per quello che è: l’inseguimento di una chimera. Ho preferito perciò riprendere l’ormai tradizionale assonanza con l’aggettivo onesto, tenue, senza dubbio, ma non così tanto se si considera la pronuncia inglese in cui la “r” è quasi inavvertibile. L’insistenza, poi, con cui Wilde ci ricorda che qui i primi a recitare sono i personaggi, mi ha spinto a leggere quel “being”, spesso precipitosamente reso con “chiamarsi”, come un “fare” (sulla scorta di “being silly” = “fare lo sciocco”) e perciò abbiamo L’importanza di far l’onesto. Quest’enfasi sulla performatività forse attenua un po’ la smaccata ironia del titolo, ma suggerisce la difficoltà di discernere la differenza tra chi è onesto e chi si mostra soltanto tale.
Restavano perciò da scoprire le carte con il lettore. Se Ernest ce l’ha scritto in faccia di chiamarsi così, allora sarà il ritratto stesso dell’“ernestà”. Tra i frequenti lapsus, niente di più facile di confondere “onestà” ed “ernestà”, come del resto fanno le due innamorate! Molti nomi italiani avrebbero fatto al caso nostro: Franco, Onesto, Savio, Probo, e perfino (E)ligio o il manzoniano Fermo. Tutti però presentano vantaggi e svantaggi semantici e fonetici, senza considerare che Wilde impiega di volta in volta l’aggettivo con diverse accezioni, talvolta opposto a falso, talvolta a frivolo e così via. Ma non solo: ci sono anche gli altri nomi parlanti. Chi traduce Ernest di norma italianizza anche Guendalina, Gianni, Agernore… ma dimentica Miss “Prism” (Prisma: che nome per una precettrice tetragona!) e “Chasuble” (casula), e finanche “Worthing”, la località balneare nella quale Wilde cominciò a scrivere la commedia, e forse anche un rimando all’idea di “worth” come valore, merito. Se si decide, e si può, di tradurre Ernest, cosa si deve fare con gli altri? Il confine si può spostare sempre più in là, fino a trasferire la storia in Italia e trovare equivalenti geografici (Fermo? Forte dei Marmi?) e magari far riferimento al brigantaggio. Possibile, e stimolante, ma per una riscrittura di tipo diverso e che non escludo per il futuro, così come un titolo nuovo, l’ennesimo.
Sono partito dalla glaciale e inquietante immobilità della società inglese per finire sulla camaleontica mutevolezza del titolo, perché tutto sfugge nel testo, tra i suoi errori e il suo equilibrio: come ci sfugge Dorian, sfugge come i dinamitardi rivoluzionari di cui Wilde dissemina le sue commedie, che fanno balenare istanti di libertà anti-convenzionale ad ogni battuta in modo da tenerci sempre all’erta, poco probi e seri, forse, ma certo franchi, onesti, ernesti.
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A. Bibbò è traduttore letterario