Cercando la falla nel sistema
di Anna Chiarloni
Ingo Schulze
PETER HOLTZ
Autoritratto di un uomo felice
ed. orig. 2017, trad. dal tedesco di Stefano Zangrando,
pp. 428, € 19,
Feltrinelli, Milano 2019
A trent’anni dalla caduta del muro di Berlino esce in Italia l’ultimo romanzo di Ingo Schulze (Dresda,1962), autore tra i più noti della sua generazione. Il testo parla con la voce di Peter Holtz, protagonista un po’ Simplicio e un po’ Candide, in continua ricerca del bene collettivo, di là e di qua del Muro di Berlino. Pur col tono monello proprio dello Schelmenroman, Schulze sa manovrare il suo (coetaneo) eroe mettendolo a confronto con due ideologie in un continuo canone a specchio. Peter Holtz è un libro laboratorio, un romanzo fluviale in cui occorre addentrarsi ripercorrendone il greto, nel flusso di una storia che si rifrange ben oltre i confini tedeschi.
Alla domanda programmatica dell’esergo – “Utile è ciò che è buono per qualcuno. O per tutti?” – segue una sorta di allegretto assai godibile anche per i suoi ammiccamenti autobiografici. Siamo negli anni settanta, il piccolo Peter, allevato a latte e marxismo in un orfanotrofio della Ddr – i genitori sono fuggiti a ovest – si spinge nella vita come un soldatino sbucato da un meccano sovietico. Con l’innocente coerenza dell’infanzia, si chiede perché mai, se nel socialismo tutto è collettivo, lui che non ha un soldo in tasca al ristorante debba pagarsi la porzione di porchetta. E si appella al cospetto della cameriera allibita alla “soddisfazione dei bisogni necessari”, sacra citazione appresa, ben inteso, “compitando con esercizio protratto” gli slogan delle rituali parate del primo maggio. E non demorde dalla sua fede, questo agitprop in erba: il suo modello è Kortschagin, il giovane rivoluzionario russo di Come fu temprato l’acciaio, sempre pronto a sacrificarsi “per il bene dell’umanità”. Schulze richiama qui un noto romanzo del sovietico Nikolaj Ostrovskij, un libro il cui pathos idealista entusiasmò a suo tempo anche Romain Rolland. Ora, è interessante notare come, nell’attuale vuoto di idee fondanti, l’autore risalga alle origini del pensiero comunista, riesumando, se pur in chiave comica, la pedagogia dello stato sovietico, oggi marchiato come “l’imputato per eccellenza” nell’opinione storica corrente. Lo stesso vocabolario di Peter è costellato di spiccioli linguistici ormai fuori corso nella Germania riunificata, dove il sabato la gioventù non corre volonterosa come lui, in obbedienza allo subbotnik, alla “battaglia per il raccolto di patate” delle cooperative agricole. E non si tratta semplicemente di un effetto conchiglia legato all’infanzia nella Ddr di Schulze, quanto piuttosto di rintracciare nel passato rivoluzionario elementi allo stato nascente, utili a una rifondazione del bene collettivo. Un bene tradito dalla storia successiva e dai suoi apparatčiki, non a caso l’ombra della Stasi, sempre pronta al calappio, si allunga fin nelle retrovie del romanzo. Questo movimento à rebours, di ritorno ai valori fondanti del socialismo, è il motore cardiaco del romanzo, evidente anche nel battito dei sommovimenti interni a ridosso della caduta del Muro.
Quei drammatici mesi sono segnati dall’incontro di Peter con la chiesa evangelica, dove tra musica e preghiera ancora guizza l’antico messaggio di fratellanza. È l’ambiente pacifista con cui si identificano i Bausoldaten, giovani obiettori assegnati nella Ddr a vanga e cazzuola. Per il nostro Simplicio è un colpo di fulmine, qui trova il suo nuovo vangelo, persino si battezza: e dall’acqua santa al reclutamento nella Cdu il passo è breve. Ma non era un konsomolze comunista? Sì, ma la democrazia cristiana della Ddr, puntualizza Schulze sottotraccia, malgrado il guinzaglio di Mosca, nulla aveva a che fare con la Cdu occidentale, verso cui Peter è molto critico a cominciare dall’intesa tra Strauss e Pinochet: quella, viceversa, era l’erede di Otto Nuschke, secondo il quale il socialismo incarnava il “realismo cristiano”. Al suo primo comizio il nostro Kommissar, convinto che sia giunta l’ora propizia per “esportare la rivoluzione a ovest”, dichiara infatti di fronte ai bonzi sbalorditi che “coscienza di classe e amore per il prossimo sono due facce della stessa medaglia”. Sembra fargli spalla Joachim Lefèvre, figura emergente a ridosso della svolta. Il nome francesizzante rimanda a Lothar de Maizière, il politico al timone della Cdu dell’est che nel 1990 trattò con Kohl e gli alleati la riunificazione tedesca.
Spogliato dei tratti aristocratici dell’originale, il Lefèvre di Schulze si presenta come chi si allea con il Sinodo e il Volk in rivolta cercando credito politico a ovest. Sarà trattato alla stregua di “un esaminando”, costretto al tavolo di Kohl a una svendita della Ddr. C’è un’aria da fin de partie in queste pagine, cifrate ma ben riconoscibili: cadono nel vuoto le parole degli intellettuali contrari a una fusione con Bonn, da Christa Wolf a Volker Braun e Christoph Hein. Lo stesso Peter si sente “in trappola”, bloccato come il mezzo cavallo di Cattelan imprigionato nel cemento. Ma non è finita qui. Perché il nostro eroe plana oltre la svolta del 1989 sulle ali della fortuna. Una vecchia donazione si rivela, con lo sviluppo edilizio della Berlino riunificata, fonte di un capitale che l’ardente comunista, ormai giovanotto, vorrebbe destinare al bene altrui. Mica facile nel nuovo tempo dei corpi in affitto. Ecco Lilly la prostituta che, funzionale come una calcolatrice, gli scandisce il suo tariffario, lui la vuole redimere regalandole un tetto ma lei si allarga prendendo al volo gli avanzi del traffico internazionale e apre un bordello, reparto usa e getta, di corpi balcanici. Nell’impasto di voci si coglie un mondo in continua trasformazione: a est lo sgombero dalle case un tempo statali, la speculazione, i licenziamenti. Tra i disoccupati fermenta la destra. In una fabbrica cede l’ultima resistenza operaia, trasparente richiamo alla liquidazione della Narva e alle sue storiche lampadine Rosa Luxemburg.
Come procedere allora in un mondo in cui tutto è prezzolato? Cercando la falla nel sistema, risponde Peter. Nell’ultima parte del romanzo Schulze, familiare fin da ragazzo con quei cortili in cui serpeggiava a Dresda come a Berlino una vitale bohème clandestina, opera una tagliente denuncia della pressione finanziaria sull’arte occidentale. Il nesso tra arte e moneta è al centro di un recente dibattito intorno alla presenza sul facoltoso mercato tedesco, e non solo, di un esercito di agenti e galleristi ingaggiati in operazioni di artwashing (“Republik”, 3.8.2019). L’artista come performer di un’oscura finanza? Corre l’anno 1998 e Peter, travestito da gallerista, punta a svelare le strategie degli investor in campo artistico. Il linguaggio si adegua, fioccano gli anglismi: bodyguard alla porta, Peter manovra sul keyboard esibendo una preview degli acquisti. Così facendo titilla il mercato, spalleggiato, s’intende, dal soffietto della stampa, con corredo di tv e vernissage fornito di belle ragazze. Il clou si verifica con una performance filmata da una troupe cinematografica. Sponsorizzato dall’agente di un ignoto magnate, Peter dà fuoco a 812.000 marchi tedeschi. E lo scandalo fa moneta: si prevede una vertiginosa quotazione del video, mentre lo stesso Peter viene acclamato come artista. Il lancio ha un immediato riflesso politico, compare persino Gerhard Schröder in persona, affaccendato in un party elettorale dedicato agli artisti: un tocco di realtà, considerato che il cancelliere, attento alle prestazioni economiche dell’arte contemporanea, è passato alla storia come il Vernissagenkanzler. Nel romanzo sarà lo stesso Schröder a consigliare l’investimento nel settore artistico, ecco la foglia di fico del capitale che si mimetizza, l’arte ridotta a “riserva aurea” del potere. Tutto appare ora chiaro: è il denaro che annienta ogni cosa, solo distruggendolo si può sanare questa società. Una tesi che fa scandalo: sorpreso a incendiare il suo tesoretto di marchi tedeschi, Peter viene accusato di violenza, recluso e sedato. È il primo “detenuto economico” della Germania riunificata. Ma dalle pagine dell’addio Peter Holtz ci rimanda un riflesso anfibio del suo Kortschagin: “O fratellanza, o barbarie”.
anna.chiarloni@unito.it
A. Chiarloni è professore emerito di letteratura tedesca all’Università di Torino