Il ruolo della filosofia oggi, tra accademia e mainstream
dialogo tra Diego Marconi e Alfredo Tomasetta
Di cosa si occupano i filosofi oggi? Che cos’è e a cosa serve la filosofia? Qual è il rapporto tra la disciplina che si insegna nelle università e quella conosciuta dal grande pubblico? Ne discutono in un confronto serrato e appassionato due studiosi del linguaggio e della mente, Diego Marconi e Alfredo Tomasetta. Per chi volesse approfondire ancora, ecco qui il video con la versione completa dell’incontro.
Alfredo Tomasetta – Nel 2014 è uscito il tuo Il mestiere di pensare, edito da Einaudi. Scrivi: “L’impressione che oggi ci siano due filosofie, una professionale, blindata nello specialismo e apparentemente poco capace di incidere sul resto della cultura, e l’altra mediatica, sostanzialmente irrilevante per la filosofia professionale”. Potremmo dire, quindi, che la filosofia accademica è incomprensibile e siamo qui, appunto, per discuterne. E bisogna dire, innanzitutto, che alla filosofia questa incomprensibilità è rimproverata, mentre non si fanno rimproveri del genere alla fisica o alla chimica accademica, che di certo sono altrettanto incomprensibili. Poi, come scrivi nel libro, esiste una filosofia popolare che si rivolge a un pubblico più ampio, e che a volte – aggiungerei – si presenta come rivale della filosofia universitaria. Ecco, per iniziare ti chiederei una riflessione su questi argomenti.
Diego Marconi – Ho l’impressione che nonostante siano passati otto anni da Il mestiere di pensare le cose non siano cambiate molto. Quando ho scritto il libro ero partito da un articolo di Freeman Dyson, un fisico britannico con molti interessi extradisciplinari, che sottolineava l’irrilevanza della filosofia per la cultura in generale. Sosteneva che la filosofia fosse appannaggio di un pubblico di specialisti, e io la penso come lui: la filosofia accademica attuale, in particolare quella analitica, è poco nota non solo al grande pubblico, ma anche al lettore colto, ovvero ad accademici di altre discipline, a scienziati, giuristi, medici, letterati e intellettuali di varia natura. Nel libro sostenevo che lo specialismo della filosofia accademica è legato anzitutto all’enorme incremento delle pubblicazioni: un filosofo che voglia dare un contributo alla ricerca non può che limitarsi a un piccolo sottoinsieme, diventando automaticamente uno specialista. Questi contributi, articoli o monografie che siano, sono inaccessibili al vasto pubblico per almeno due ragioni. La prima, più evidente, è l’estrema tecnicità dei testi, in cui il linguaggio utilizzato è ricco di espressioni non di uso comune e gli autori citati sono perlopiù sconosciuti, creando nel lettore non esperto un senso di totale estraneità. Elementi, questi, che si aggiungono all’intrinseca difficoltà dei temi di cui ci si occupa, creando un senso generale di incomprensibilità. La seconda ragione è che quei testi, spesso, trattano problemi di cui chi legge non è in grado di comprendere né l’importanza né, in fondo, la natura stessa. I tentativi di spiegare la rilevanza dei complessi argomenti trattati sono, diciamo, sempre un po’ posticci, dal momento che, in realtà, l’autore si occupa di quel tema perché ne è stato stimolato intellettualmente, non per salvare il mondo o rendersi utile al prossimo.
Un’osservazione che mi è stata fatta, nel corso degli anni, è che questo discorso riguarda allo stesso modo e ancora più pesantemente la letteratura scientifica, la fisica delle particelle, la genetica, la chimica. In questi casi, però, nessuno si aspetta un’immediata accessibilità di queste discipline, perché la scienza, per definizione, è riservata agli addetti ai lavori e non le è richiesto di possedere contenuti facilmente comprensibili. A legittimare la scienza è sufficiente, oltre all’utilità pratica, la convinzione che essa sia in grado di fornire la miglior conoscenza possibile del mondo in cui ci troviamo a vivere. Se si escludono autori come Timothy Williamson (Fare filosofia, il Mulino, 2022, cfr. recensione a p. 27 di questo numero) che la considerano una disciplina scientifica, è opinione diffusa che la filosofia non possa vantare né quel genere di utilità pratica né le stesse prerogative conoscitive delle scienze.
Molti critici sostengono che questo problema riguardi solo la filosofia analitica, e che esista invece una filosofia in grado di rivolgersi a tutti, che vende libri a un pubblico colto ma generalista e che è in grado di comunicare in modo discorsivo, per quanto complesso e non analitico, come dimostra il successo di filosofi come Habermas, Žižek, Vattimo, Derrida, Deleuze, Foucault, Adorno e così via. Ora, non c’è dubbio che i libri di questi autori vengano comprati e magari, almeno in parte, anche letti, ma bisogna capire se questo generi una reale comprensione dei temi discussi. Certe volte ho avuto l’impressione che i lettori usino questo tipo di libri come fonte di slogan seduttivi, ma che i concetti che esprimono siano in realtà opachi, e che proprio a causa di questa opacità ciascuno sia poi libero di utilizzarli a supporto di idee che, in realtà, sono del lettore, non dell’autore. Mi viene anche da pensare che tali testi siano visti più come letteratura che come filosofia, la quale, invece, a mio parere deve avere un carattere argomentativo e non divulgativo. Intendiamoci: non dico che questi libri non parlino di filosofia o che i loro autori producano necessariamente cattiva filosofia, ma visto che la questione, qui, è la comprensibilità della filosofia, ebbene, non credo che siano testi comunicativi e penso che il loro successo non significhi automaticamente che lo siano.
A. T. – A mio parere, in Italia ma anche altrove, la distanza della filosofia dal grande pubblico è aumentata anche per ragioni di organizzazione “sociologica” delle università: si sono ormai affermati sistemi di valutazione para-algoritmici che, di fatto, in molti casi premiano una produzione, o sovrapproduzione, iper-scolastica. Vengono così creati professionisti che tendono a uniformarsi a un’unica tipologia di ricercatore e che finiscono per pubblicare secondo ritmi e modalità imposti dagli strumenti di misura. Penso soprattutto a certi giovani filosofi americani che sono produttori implacabili di articoli e che, eccezioni a parte, a volte sembrano intercambiabili. Viene quasi da chiedersi se non ci sia una sorta di intenzionale aspirazione alla non riconoscibilità stilistica e argomentativa.
Per quel che concerne il problema di suscitare interesse per il lavoro del filosofo analitico nei non specialisti o nei colleghi del dipartimento accanto, penso che il punto vero non sia la mancanza di volontà o l’incapacità di rendersi comprensibili. La questione è più generale e riguarda l’assenza di un respiro culturale che possa in qualche modo ‘includere’ lettori di formazioni diverse, cosa che, a mio parere, contribuisce in modo evidente all’isolamento della filosofia, in particolare di quella analitica – che è ormai l’orientamento prevalente in occidente e di cui faccio senz’altro parte anche io. Ed è proprio per questo che non posso non vederne alcuni limiti: trovo sorprendente, per fare un solo esempio, che il prevalere, nell’attuale panorama della filosofia analitica del tempo, di una tesi sbalorditiva come l’eternismo si sia di fatto accompagnato molto di rado a scritti o discussioni sulle implicazioni che una tale idea inevitabilmente ha (o potrebbe avere) sulle vite di tutti noi.
Il filosofo americano Scott Soames, analitico anche lui, sostiene, e con un certo orgoglio, che nella filosofia analitica manchi quella che definisce “The art of living”. Come dice anche Williamson, la filosofia analitica ha aspirato ad essere, ed è diventata, qualcosa di molto simile alle discipline scientifiche, e nessuno si aspetta che la chimica organica ti insegni a vivere. Eppure nel grande pubblico è invece molto radicata la convinzione che la filosofia debba aiutare a orientarsi nella vita e che non possa limitarsi alla contemplazione di verità astratte: la filosofia non è una semplice impresa intellettuale, ma è anche il tentativo di indicare la via per una vita buona a partire dall’esame riflessivo della nostra condizione. Questa idea di filosofia è molto antica: proposta almeno a partire da Socrate e Platone, è stata condivisa dagli stoici, dagli epicurei, dai neoplatonici e da molti altri filosofi, e credo non la si debba ignorare; la filosofia come “arte della vita” va dunque presa sul serio, ma ho l’impressione che gran parte dei filosofi analitici non ritenga importante farlo. Ovviamente non intendo trasformare il filosofo in un terapeuta o un guru, ma penso sia essenziale rendere la filosofia più aperta, abbandonando almeno in parte quell’atteggiamento da solutore di rebus così caro ai filosofi analitici. Siamo noi a dover uscire dall’isolamento, collaborare di più con le discipline umanistiche e perlomeno provare a connettere gli aspetti più teorici della ricerca all’orientamento delle nostre vite, un nesso che è centrale in molta parte della filosofia, occidentale e non.
D. M. – Be’, anzitutto condivido il tuo fastidio per la produzione scientifica completamente autoriflessiva. Per quanto riguarda le cause, però, non sono così d’accordo: non credo dipenda dal sistema di valutazione universitaria, ma dai luoghi dove viene effettivamente prodotta la ricerca. Le commissioni quasi non leggono cosa il candidato ha scritto, ma si limitano a guardare dove l’ha scritto, su quale rivista, per quale casa editrice. Riviste ed editori, però, pubblicano solo gli articoli o i libri che danno un contributo a uno dei dibattiti in quel momento riconosciuti dalla comunità come importanti e centrali. È dunque ancora peggio di come la metti tu: sono le riviste a determinare gli argomenti di cui è opportuno parlare e questo a volte viene fatto in modo arbitrario, seguendo qualcosa che, alla fine, è simile alle mode.
Rispetto all’isolamento della filosofia ti farei osservare che esistono gli scambi interdisciplinari e che sono molto importanti. Testi di filosofia della mente, del linguaggio, di logica vengono studiati e utilizzati da neurologi, filologi, medici, linguisti. E se è vero che la filosofia analitica rischia lo specialismo è altresì vero che il dialogo tra specialisti di diverse discipline è un’apertura di rilevanza indubitabile.
Tieni anche presente che esiste pur sempre la divulgazione (di cui io sono un grande sostenitore): è possibile scrivere libri che informino su una discussione filosofica in corso o che presentino una teoria in forma seria ma comprensibile, rinunciando allo stile accademico. Penso che costringersi a spiegare in modo chiaro e senza semplificazioni eccessive l’oggetto del proprio lavoro sia uno sforzo che in qualche misura è doveroso fare.
Infine riconosco che la filosofia come “arte della vita” è un approccio ancora non approvato dagli accademici: non si riesce a dare un posto adeguato a questo genere di scrittura filosofica né sul piano culturale né su quello professionale; per come la vedo io, è soprattutto un problema del sistema attuale.
A. T. – Sì, sono sostanzialmente d’accordo con te. Tornando all’omologazione della ricerca mi chiedo se potrebbe mai essere presentato in qualche concorso un testo come le Ricerche filosofiche di Wittgenstein: verrebbe immediatamente escluso per il suo stile, così estraneo ai canoni accettati. E il problema è proprio questo: scrivere solo articoli perfetti secondo il canone non permette di arricchire l’ecosistema intellettuale e, tra l’altro, fa scomparire l’idea di filosofia come arte della vita. Secondo il nostro ministero, le università hanno tre missioni: fare ricerca, fare divulgazione, insegnare. È significativo che i criteri di valutazione si concentrino molto sulla prima e, in misura minore, sulla seconda. L’insegnamento, di fatto, non ha un vero e proprio peso. Ecco, per come la vedo io, la svalutazione dell’insegnamento va di pari passo con la svalutazione della filosofia come “arte della vita”: se l’insegnamento avesse l’importanza che merita, e se questo avvenisse insieme a una generale revisione della filosofia scolasticizzata, ci sarebbe, credo, una divulgazione di maggior presa e, nelle università, il ridimensionamento della sovrapproduzione specialistica a vantaggio di una filosofia come via di formazione di sé attraverso la riflessione. Questo mi pare lo scenario verso cui tendere per promuovere una diffusione nuova della filosofia.
diego_marconi@fastwebnet.it
D. Marconi è professore emerito di filosofia del linguaggio
alfredo.tomasetta@iusspavia.it
A. Tomasetta è professore di filosofia e teoria dei linguaggi alla Scuola Universitaria Superiore IUSS di Pavia