Progresso scorsoio
di Vito Santoro
Giorgio Falco
Flashover
Incendio a Venezia
fotografie di Sabrina Ragucci,
pp. 196, € 19
Einaudi, Torino 2020
Flashover. Incendio a Venezia di Giorgio Falco ricostruisce la vicenda del devastante incendio doloso che la sera del 29 gennaio 1996 distrusse il teatro La Fenice e al contempo due secoli di storia culturale di una intera città. Il rogo impegnò i vigili del fuoco per tutta la notte. Un anno dopo i responsabili furono individuati, arrestati e condannati in seguito a un’inchiesta condotta dal giudice Felice Casson. Si trattava di Enrico Carella e di suo cugino Massimiliano Marchetti, due elettricisti impegnati con la loro ditta Viet (titolare il primo, dipendente il secondo) a lavorare in subappalto alle opere di restauro del teatro. Una “storiaccia”, di debiti, rate della Bmw da pagare, mocassini Fratelli Rossetti portati anche in cantiere, fidanzate da sfruttare, “bella vita” a ogni costo, paura di penali da pagare per ritardata fine dei lavori. Una “storiaccia” che rimanda però ad “altro”, quell’“altro”, che Falco allegorizza appunto nel momento del flashover, cioè la fase dell’incendio generalizzato, quella che fa seguito alla ignizione e alla propagazione, quando “la temperatura è altissima, uniforme” e “ogni cosa si rivela per come appariva pochi minuti prima, ma in quanto fuoco”. Il sottotitolo, le pagine iniziali e la collocazione in una collana non fiction, quale l’einaudiana “Frontiere”, sembrerebbero suggerire che in questo suo nuovo libro l’autore intenda muoversi nei territori delle scritture spurie. Cosa prontamente smentita. Il suo – chiarisce Falco – non è romanzo, “né racconto, né saggio, né novella, né poesia”, ma “un insieme frammentato di fatti, nulla esiste al di fuori di essi”. Nessun significato recondito da ricercare. Il compito che lo scrittore si assume è solo quello di rendere visibili i fatti (“la visione che precede la cronaca, la visione che vivifica la cronaca tramutandola in altro”), constatare quanto c’è in essi, magari con digressioni, momenti di autoriflessione, citazioni e rimandi, in un gioco a carte scoperte con il lettore (“Fino a pochi minuti fa, non avresti mai pensato di scrivere, adesso, questo brano, e invece eccoti qua, a lottare tra parentesi”).
Pagina dopo pagina, Falco procede seguendo il metodo di Michelangelo Antonioni, di cui cita il celebre pianosequenza circolare di Cronaca di un amore, in cui con straordinaria sintesi cinematografica viene mostrato come il fattore economico condizioni e segmenti le vite individuali. Metodo riassumibile nel cogliere con un occhio i movimenti o i non movimenti delle passioni, con l’altro a captare nel mondo esterno gli agenti, i fattori che influenzano l’universo dei comportamenti interiori e dei loro segni.
Solo così questa storia incendiaria può essere raccontata, a partire da quella che è la propria origine, l’“informazione genetica grazie alla quale tutto è iniziato e ha potuto svilupparsi”: la catastrofe ambientale, antropologica e culturale che si è abbattuta sul Nordest d’Italia. Qui l’idea di “progresso” promossa dalle dottrine ultraliberiste globali – “progresso scorsoio” ebbe a definirlo Andrea Zanzotto – ha scatenato una forza barbara, che ha permeato fin nelle radici la terra veneta e che si è tradotta in una infelicità diffusa. Lo testimoniano il consumismo e soprattutto l’uso massiccio di droghe. “In Veneto (…) – sottolinea Falco – ogni pasticca è una crecoa, (…) crecoa deriva da briciola, la briciola avanzata sulla tovaglia dopo il pranzo; crecoa d’ecstasy definisce il passaggio dalla civiltà contadina alla civiltà della fine del lavoro, quest’ultima ancora soggetta all’ideologia del lavoro, ma impregnata di un’ideologia tossica, di purissimo consumo idolatrico, l’essenza del capitalismo contemporaneo”.
Il “cugino padrone”, a sua volta dipendente dal padre, e il “cugino dipendente” sembrano vivere in una bolla di “realismo capitalista”, per citare la lezione di Mark Fisher, cioè in una realtà infinitamente plastica, capace di riconfigurarsi come e quando vuole, che somiglia alle infinite opzioni di un documento digitale, dove nessuna decisione è definitiva, le revisioni sono sempre possibili, e ogni attimo pregresso può essere richiamato in qualsiasi momento. E il cugino padrone, il principale “personaggio-non personaggio” di questa storia, è appunto un lapillo “eruttato dal cratere della Fenice, generato ed espulso dal capitale”. Capitale che necessita – iuxta Marx – sempre di uno stato di crisi per rigenerarsi. Ossessionato dal denaro, Carella è indifferente alla bellezza. La considera semplicemente un mezzo per ottenere subappalti e quindi soldi, sempre peraltro insufficienti. A questo proposito, per differentiam Falco riprende Il padiglione d’oro di Yukio Mishima (1956). Questo romanzo capolavoro della letteratura giapponese del secondo Novecento, si ispira a un fatto realmente accaduto nell’estate di sei anni prima, quando un certo Hayashi Shōken, un adepto del tempio Rokuonji di Kyōto ne diede alle fiamme il famoso padiglione, meta fissa di una gran massa di visitatori. Il piromane non pensava di aver fatto una cosa cattiva. La bellezza sprigionata dal padiglione era per lui un mostro soffocante, capace di fagocitare tutto. Da qui la sua distruzione.
Flashover non è solo questo. Per tutto il libro alle parole fanno da contrappunto settantaquattro foto di Sabrina Ragucci. In esse campeggia una enigmatica figura maschile (vestita con abiti eleganti, sportivi, o nuda, a volte indica degli oggetti, a volte li ha in mano) dal viso occultato da una inquietante maschera bianca, sulla quale sono scavati sorrisi, ghigni, e a volte innestata una parrucca biondo platino. Fa pensare al protagonista di V for Vendetta, straordinario graphic novel distopico di Alan Moore, giustiziere anarchico che punta a demolire i gangli di un potere dittatoriale, o all’uomo senza volto dei manifesti di Franz Lenhart, emblema dell’uomo massa dei regimi totalitari, al quale Falco dedica molte pagine, quasi un saggio, di uno dei suoi romanzi più importanti, La gemella H (Einaudi, 2014). Ma viene in mente anche L’avventura di un fotografo di Italo Calvino, dove il protagonista Antonino tenta di realizzare un ritratto della sua modella “tutto in superficie, palese, univoco”.
Un ritratto che non rifugge dall’“apparenza convenzionale, stereotipa, della maschera”, la quale, in quanto prodotto sociale, storico, contiene più verità d’ogni immagine che si pretenda “vera”. Porta con sé una quantità di significati che si riveleranno a poco a poco. Non a caso, scrive Falco, si definisce maschera “la griglia che appare sullo schermo di un computer, per consentire un’immissione di dati controllata e strutturata”, durante le contrattazioni telematiche, quando tra flusso invisibile del denaro e corpo si stabilisce una connivenza. Siamo dunque in una dimensione postumana. “La maschera è il luogo non più del volto, ma il luogo in cui il denaro si nasconde. Il denaro concede di essere guardato tramite la maschera (…). Il volto, quando finisce di essere maschera, diventa ciò che non è più. Il fuoco, quando finisce di essere fuoco, diventa le cose che ha bruciato”.
vitosantoro@live.it
V. Santoro è critico e saggista