dal numero di marzo 2019
di Simone Garino
Anna Harwell Celenza
JAZZ ALL’ITALIANA
Da New Orleans all’Italia fascista e a Sinatra
ed. orig. 2017, trad dall’inglese di Anna Maria Paci
pp. 264, € 23
Carocci, Roma 2018
Camilla Poesio
Tutto è ritmo,tutto è swing
Il jazz, il fascismo e la società italiana
pp. VIII-184, € 14
Le Monnier, Firenze 2018
Con l’illustre eccezione del saggio di Luca Cerchiari Jazz e fascismo (L’Epos, 2003), il rapporto tra il jazz delle origini e la società e la cultura italiana è stato raramente oggetto di studi approfonditi. La ricercatrice americana Anna Harwell Celenza è forse la prima studiosa d’oltreoceano a occuparsi del ruolo dei musicisti di origine italiana in America, per quanto concerne i primi anni della storia del jazz. L’argomento principale della prima parte del libro è proprio una riscoperta del loro contributo: in una sorta di viaggio da New Orleans a New York, passando per San Francisco e Chicago, vengono tratteggiate le figure più significative (Nick La Rocca, Bob Iosco, Guido Deiro), i loro rapporti con i musicisti afroamericani ed è fornita anche un’interessante ipotesi sulla prima attestazione giornalistica del termine “jazz”, usato per la prima volta per descrivere un particolare lancio nel baseball. Successivamente l’attenzione si sposta sull’Italia, e in particolare sul rapporto tra jazz e fascismo. La tesi della studiosa americana è, per certi versi, rivoluzionaria. O per meglio dire revisionista: il jazz prosperò in Italia fino all’inizio della seconda guerra mondiale, grazie al sostegno entusiastico di Mussolini. Harwell Celenza arriva anche a definirlo come “simbolo del regime”, e afferma che “una sorta di rimorso nazionale ha ridotto al minimo la volontà di rivangare i rapporti tra jazz e regime fascista”. Tuttavia dobbiamo rilevare come le argomentazioni prodotte siano spesso lacunose. Qualche esempio: Natalino Otto viene dipinto come sostenitore del fascismo, ma viene taciuto il fatto che non si iscrisse mai al Pnf, e che le sue canzoni furono per questo motivo censurate nel 1942. È poi riportata una citazione di Josephine Baker in sostegno all’invasione dell’Etiopia, ma non è menzionato l’annullamento, deciso dalle autorità fasciste, della sua tournée italiana nel 1929. Altri problemi sono costituiti dall’attribuzione al dittatore di una citazione non documentata da alcuna fonte (“Il jazz è la voce della gioventù italiana”) e dal discutibile impiego delle memorie dei figli di Mussolini come fonte storica.
Verso la fine del volume emergono altre e più gravi mancanze. Harwell Celenza arriva a sostenere che l’Italia fascista fosse l’unico paese europeo a considerare il jazz una forma d’arte “indigena”, contrapponendole persino la Francia. Dobbiamo tuttavia ricordare che, negli stessi anni, i più importanti musicisti jazz afroamericani erano liberi di esibirsi con i colleghi francesi, o che il successo del parigino d’adozione Django Reinhardt – ancora oggi considerato il più importante jazzista europeo – fu tale da permettergli di continuare a esibirsi anche durante l’occupazione nazista, nonostante le sue origini tzigane. Del resto, anche in Germania l’importazione dei dischi americani continuò fino al 1938, anno della mostra di Düsseldorf sull’arte degenerata. Non si capisce quindi dove risieda l’eccezionalità della situazione italiana. Infine, sostenere che gli anni cinquanta e l’inizio del Festival di Sanremo segnarono il declino del jazz italiano è possibile solo se si ignorano le figure di Renato Carosone e Fred Buscaglione, o quella di Armando Trovajoli, direttore, durante il Festival del 1957, della Orchestra di jazz sinfonico.
Meglio argomentate sono le tesi di Camilla Poesio, nel suo libro Tutto è ritmo, tutto è swing: la studiosa italiana parla di “tolleranza” e di “controllo”, più che di aperto sostegno. “Vietare il jazz sarebbe stato non solo impossibile ma controproducente, perché il jazz era amato dai giovani e il regime, per durare, aveva bisogno del loro sostegno”. Mussolini e i suoi gerarchi, in altre parole, non avrebbero tratto alcun giovamento da una totale messa al bando di quella che era a tutti gli effetti la musica del momento. Poesio ripercorre alcune delle direttrici attraverso le quali il jazz entrò in Italia, dalle orchestre dei transatlantici al turismo di lusso, oltre naturalmente alla radio e al cinema, forse il mezzo più incisivo per la sua rapida diffusione. L’invasione dell’Etiopia e l’approvazione delle leggi razziali segnarono tuttavia un cambiamento di prospettiva. I musicisti italiani dovettero “camuffare” le canzoni americane (è noto il caso di St. Louis Blues trasformata in Le tristezze di San Luigi). La fondazione nel 1937 dell’Ente nazionale per la musica sinfonico-vocale aveva come obiettivo primario il contrasto di “musiche esotiche, fatte di suoni contorti e selvaggi”. Tuttavia, come detto, era impensabile un divieto assoluto: il jazz (o “giazzo”, in uno dei maldestri tentativi di italianizzazione dell’epoca) doveva quindi diventare “meno americano e negroide possibile”, e al contrario più “legato alla melodia”, e quindi più “italiano”. Inutile sottolineare la pretestuosità di tali argomenti: la ricchezza melodica del jazz americano di quegli anni non solo era indubbia, ma spesso era mutuata direttamente dall’opera lirica italiana. Per citare solo due tra gli esempi più noti, Coleman Hawkins dichiarò di ispirarsi direttamente a Enrico Caruso per il suo suono di sax tenore, e uno dei più grandi successi di Al Johnson, Avalon, era ricalcato sull’aria pucciniana E lucevan le stelle.
simone.garino@gmail.com
S. Garino è insegnante di musica e sassofonista
Playlist musicale:
Nick La Rocca and the Original Dixieland Jazz Band – Tiger Rag