Il poema della forza
di Luciano Zampese
Francesca Piazza
La parola e la spada
Violenza e linguaggio attraverso l’Iliade
pp. 232, € 22,
il Mulino, Bologna 2019
Nel libro di Francesca Piazza, La parola e la spada, la violenza parla e le sue parole sono intrecciate all’agire, sono esse stesse azione e finiscono per essere ancora più inquietanti del silenzio di Bia: la specificità della specie umana, il linguaggio, si realizza in pratiche verbali, in fasci di azioni che dialogano con gli sguardi e i gesti aggressivi, l’esibizione e l’uso delle armi, con complessi effetti di potenziamento della violenza. Tra il dire e il fare il mare sembra scomparire, insabbiarsi. Così l’autrice: “Il combattere dell’animale che sa anche discutere è un combattere radicalmente diverso rispetto a quello delle specie animali prive di linguaggio”. Il logos, quell’orgogliosa cifra dell’umano e del mondo greco, diviene uno strumento che ci rende più disumani degli animali: se Pericle aveva vantato la capacità del logos di progettare e rendere più efficaci gli erga, ossia l’agire, è sempre il logos che rende possibile ciò che pare escluso per gli altri animali: “Si può utilizzare il duello tra Ettore e Achille come un caso esemplare di mancato riconoscimento tra co-specifici, possibile solo per l’animale linguistico, l’unico capace di dire a un membro della sua specie “tu non sei un uomo” (concorrendo magari al triste primato della specie umana di avere “il maggior tasso di aggressività intraspecifica”). E non sarà sfuggito il rilievo di questo atto di negazione, la possibilità assolutamente peculiare del linguaggio umano di caratterizzare la realtà attraverso proprietà negative, attraverso ciò che “non c’è”. L’altra faccia, la parentela con i linguaggi dell’aggressività animale, rimane marginale nella riflessione: se ne può cogliere un punto di emergenza nella dimensione della phoné, l’urlo inarticolato dell’eroe in battaglia, un nodo di funzioni comunicative quasi inestricabile, proprio per la sua natura prelogica.
Dopo un Prologo che definisce i fondamenti teorici, filosofici, linguistici e antropologici, dell’oggetto del discorso, il libro si concentra su un’ampia disamina dell’Iliade, riletta col filtro tematico della “violenza verbale”: anche se “non è un libro sull’Iliade”, l’Iliade è il campo di battaglia di tutta l’argomentazione dell’autrice. La molteplicità delle situazioni di conflitto evidenzia al tempo stesso la diversificazione del reale (dallo scontro con il nemico, a quello assembleare con i propri compagni, dal campo di battaglia al campo sportivo, dove si svolgono i giochi in onore di Patroclo) e la pervasività delle pratiche verbali di aggressione (rimproveri, minacce, maledizioni, giuramenti, e le sottili declinazioni semantiche dei verba dicendi del lessico omerico). Inevitabilmente il duello è l’evidenza più complessa e nitida dell’intreccio tra la parola e la spada: lo scontro, come l’amore, è tipicamente un rito con due officianti. Così, linguisticamente, possiamo dire che la violenza è per sua natura deittica, richiede un tu, un bersaglio, e prevede di confermare o instaurare una relazione di dominio sull’altro. Non solo: come sottolinea l’autrice, gli atti di parola violenta richiedono spesso o quasi sempre una dimensione di pubblicità, la presenza di un non-io non-tu, una terza persona, possibilmente plurale, eccentrica al canonico meccanismo deittico.
La natura profonda dell’intreccio può essere illustrata dalla perfetta sovrapposizione, senza alcuna ridondanza, di parole e azione: e questo non è certo costitutivo delle parole di violenza ma anche delle parole-azioni che cercano di ricomporre un equilibro, per quanto sbilanciato e precario, come nel caso della supplica. Piazza evoca il verbo gounoumai, che accompagna l’azione che descrive, ossia l’abbracciare le ginocchia in atto di supplica: “Pregava abbracciandogli con una mano le ginocchia (…): ‘Achille, ti scongiuro (gounoumai s’, Achileu)’”; qui il supplice è Licaone, e finirà male: “il rifiuto del guerriero di risparmiare la vita dell’avversario sembra piuttosto la norma che l’eccezione”; l’autrice avverte che la “formula performativa acquista efficacia anche indipendentemente dall’effettiva realizzazione del gesto”): sarà così per il gounoumai di Odisseo, sapientemente privo di contatto fisico con le ginocchia di Nausicaa.
La matrice teorica rinvia al concetto di performativo: se da sempre la riflessione sul linguaggio è stata ossessionata dal rapporto tra parole e cose, con John L. Austin (e l’infinita schiera degli studi sollecitati dalla sua opera; ma nella prima lezione del suo How to do things with words Austin evoca “among the pioneers” Kant) si pone al centro la complessa rete di rapporti tra parola e azione, e prende forma il concetto di speech act, “atto linguistico”. I performativi si presentano come verbi particolari tanto nel significato quanto nella morfologia: “humdrum verbs in the first person singular present indicative active” (Austin); i primi di questi ‘verbi comuni’, (apparentemente) privi di interesse, proposti da Austin riguardano il rito del matrimonio (il ‘sì’ degli sposi, ovvero I do in risposta al sacerdote), il battesimo di una nave, una formula testamentaria, una scommessa. Gli esempi non sono proposti ad abundantiam: i primi due sono accompagnati dall’indicazione di precisi contesti enunciativi, dei “rituali” che codificano socialmente dei ruoli e delle procedure e non solo delle formule linguistiche (in particolare il primo si realizza in una dimensione dialogica), il terzo esempio evoca la possibilità di atti performativi in un testo scritto, l’ultimo infine si caratterizza per la genericità della contestualizzazione. Già questa embrionale molteplicità è suggestiva per una “fenomenologia” dei performativi (che verrà assorbita, o se si vuole estesa, in una classificazione complessiva per “famiglie di atti linguistici che sono connessi tra loro e che si sovrappongono gli uni agli altri”, Austin). Un esempio di caratterizzazione lo offre l’autrice sottolineando come la minaccia venga tipicamente compiuta senza la presenza del performativo esplicito (ti minaccio), e già John Searle in effetti osservava come la maggioranza degli atti linguistici siano impliciti. Ancora più interessante è seguire l’autrice nell’illustrazione delle molteplici forme che traducono verbalmente l’atto di minaccia, in un gioco linguistico che sfrutta al tempo stesso la possibilità di fondere e di “confondere” più atti linguistici: così una promessa, una domanda, un invito a combattere, una narrazione del proprio passato genealogico o di ciò che saranno gli effetti luttuosi del duello in corso possono essere sapientemente finalizzati a un “macro-atto” di minaccia. La gran parte del lavoro consiste nelle esemplificazioni e nelle relative analisi testuali, di cui è impossibile rendere conto: forse l’esempio più articolato è costituito dal capitolo che chiude il volume, dedicato a quella lite che dà avvio alla letteratura occidentale. E qui si ribadisce la tesi di fondo: se Achille trattiene la spada, e passa all’offesa, al giuramento e alla maledizione, non sarà “certo una parola che sana il conflitto, ma una parola che il conflitto lo amplia e lo radicalizza”.
Quasi la metà dell’Iliade è fatta di discorsi diretti, di parole pronunciate, non raccontate. Lo studio di Francesca Piazza ha scelto di illustrare la parola come “arma da taglio”, inestricabilmente intrecciata alla violenza fisica del mondo maschile della guerra, rinunciando alla parola come “filo di sutura”, che mitiga, compone il contrasto, consola dal dolore, persuade: siamo sulla scia dell’Iliade “poema della forza” di Simone Weil; rimangono da ascoltare tante altre parole, anche quelle che danno forma al dolore, all’ingiustizia, alla compassione per l’altro, e le voci femminili, più rare e preziose, quelle di Teti, Elena, Andromaca, Ecuba. Rachel Bespaloff le aveva raccolte con grande sensibilità nella sua Iliade (1943), che inviterei a rileggere, dopo questo saggio che ci pone di fronte al “lato più oscuro del logos”.
luciano.zampese@unige.ch
L. Zampese insegna linguistica italiana all’Università di Ginevra