Padri licenziati e figli mai assunti
di Giuseppe Lupo
Eugenio Raspi
TUTTOFUMO
pp. 349, € 18,
BaldiniCastoldi, Milano 2019
Eugenio Raspi aveva già dato una prova convincente di come si possa scrivere di lavoro e di fabbrica con un libro del 2017, Inox, romanzo che sin dal titolo mostrava una profonda parentela con quella che un tempo veniva chiamata “letteratura industriale”. La particolarità di Raspi era duplice: sapeva di cosa narrava, avendo lavorato nella fabbrica che stava al centro della sua storia, ma non si era lasciato prendere la mano da quel senso documentario, che avrebbe dato alla pagina un aspetto eccessivamente testimoniale. Sta nei patti della narrazione raccontare ciò che si conosce con la svagatezza di un’opera di invenzione e in questo obiettivo Raspi era riuscito bene, dando il quadro di una realtà problematica ma non secondo il racconto di maniera, che invece fa spesso difetto in quei narratori contemporanei quando si cimentano con problematiche legate al lavoro. Uguali sensazioni si provano ora dinanzi a Tuttofumo: un libro che sposta di qualche chilometro la geografia industriale – da Terni a Narni – rimanendo però in quell’Umbria di povera solennità medievale, dove la vista di una ciminiera stride con la dolcezza del paesaggio. Anche le pagine di questo nuovo romanzo vivono della medesima contraddizione e la presenza di un fumaiolo, che il protagonista scruta a ogni ora del giorno come si osserva una minaccia, non agevola l’acquisizione di una continuità fra tradizione e modernità. Il fumaiolo è e rimane anche una presenza nemica, secondo un fare letteratura che ha sempre visto nelle fabbriche qualcosa di estraneo al corpo della natura. Raspi però non si limita a dichiarare l’ostilità delle macchine. Non è questo il problema che gli sta a cuore, piuttosto quello di cercare un punto di raccordo tra le generazioni dei padri e quelle dei figli, cioè tra i “padri licenziati” e i “figli mai assunti”. Le due espressioni rischiano di diventare un punto di riferimento non solo in questo libro, ma nella letteratura che si produce nei nostri anni perché è esattamente nella cerniera di chi si è fatto uomo negli anni settanta e di chi si affaccia alla maturità dopo il Duemila che si giocano le sorti della nuova letteratura industriale.
Tuttofumo può essere questo: la storia di una famiglia cresciuta all’ombra della grande ciminiera in una città appenninica, due modi di vedere il lavoro che non c’è, due sponde di uno stesso fiume, un padre che si ostina a credere nel valore della fabbrica e va a contemplarla nonostante da essa sia stato rifiutato, un figlio che ha ben chiaro l’epilogo del sistema industriale e cerca la strada della propria vita nelle rotte turistiche che lo allontaneranno sempre più dai fumaioli della sua infanzia. La fabbrica – leggiamo alle prime pagine del romanzo – “era la speranza di uno stipendio, del matrimonio, una famiglia, dei figli. Le tante promesse si sono rivelate bugie belle e buone, e quel naso da pinocchio, cresciuto a dismisura, sta lì a testimoniarlo”. Il “naso da pinocchio” è il fumaiolo, l’ingombrante totem di una modernità che non è stata bugiarda, ma lo è diventata in ragione di un tradimento avvenuto nella fase della deindustrializzazione, quando vengono a cadere tutte le fiduciose premesse che il futuro sarebbe stato per forza migliore.
Sembra quasi che si respiri un’aria di sfida, come se buona parte delle famiglie cresciute tra gli impianti chimici chiedessero il risarcimento non tanto per il paesaggio compromesso, piuttosto per il venir meno di ciò che era stato aspettato, per le illusioni di un futuro lasciato intravedere ma poi spentosi nel silenzio di quel nulla che accompagna il transitare del tempo intorno allo stabilimento. Il fumo, che sta nel titolo, diventa metafora di una condizione. Può essere sintomo di una incompletezza o di una incompiutezza, lascito di un fuoco che ha bruciato troppo in fretta, un fuoco di paglia, com’è stato il boom economico nel nostro paese. Eppure Narni era già entrata agli albori della letteratura di fabbrica mediante la penna di Leonardo Sinisgalli, che in questo luogo era transitato lasciandoci una splendida poesia ferroviaria (Narni-Amelia scalo), una visita in fabbrica (Ritratti di macchine), un articolo dalla natura descrittiva (Come si fabbrica il linoleum). Era la fine degli anni trenta e usciva fumo dalle ciminiere. Ora che invece sono spente e del fuoco della modernità non rimane nemmeno la brace, bisogna comprendere dove si trovi il pertugio attraverso cui uscire dall’impasse di una post-modernità dimentica delle sue migliori virtù. Certo il lavoro è sparito e le fabbriche sono ferme, ma non è più questo il territorio che la letteratura deve percorrere se vuole andare oltre il limite della denuncia, ritagliarsi una funzione progettuale o quantomeno uno sguardo che abbia l’altezza di una proposta. Il racconto del “come eravamo” è sempre meno necessario, come pure il racconto del “come siamo diventati”. Il fumo che ci aveva annebbiato la vista adesso non c’è più. Restano i monumenti a suo ricordo, ma hanno l’aspetto di una sopravvivenza.
giuseppe.lupo@unicatt.it
G. Lupo insegna letteratura italiana contemporanea presso l’Università Cattolica di Milano