Un contenitore di opposti recensione di Franca Cavagnoli
dal numero di febbraio 2018
Davide Enia
APPUNTI PER UN NAUFRAGIO
pp. 211, € 15
Sellerio, Palermo 2017
Una giovane fenicia fugge da Tiro e attraversa il deserto fin dove non può proseguire perché davanti a lei si stende il mare. Per sua fortuna un toro bianco la fa salire in groppa e, solcando le onde, la conduce a un approdo sicuro sull’isola di Creta. La storia di Europa, ci ricorda Davide Enia in Appunti per un naufragio, è la storia della nostra origine. Nel suo libro – per metà narrazione autobiografica e per metà reportage – Enia dà voce a testimoni e volontari, al personale medico, agli uomini della Guardia costiera, agli amici che lo ospitano quando torna a Lampedusa. Sull’isola ha visto sbarcare centinaia di persone, è uscito in barca con i pescatori, ha conversato con i residenti, ha ascoltato i sopravvissuti.
Lampedusa è un “contenitore di opposti”, scrive, dove convivono emergenza e ipocrisia, burocrazia e solidarietà, paura e coraggio. La paura di chi, affacciandosi alla finestra che dà su una cala, dopo essere stato svegliato da un vocio nel cuore della notte, vede un nugolo di persone avanzare verso casa sua e istintivamente pensa di serrare bene usci e finestre, ma poi si rende conto di quel che succede, spalanca la porta e le accoglie. Con il senso di colpa per aver provato quel sentimento di paura, però, dovrà fare i conti per il resto della sua vita: “Esistono due istinti, solo che uno precede l’altro: il proteggersi e l’aiutare il prossimo, perché anche quello di aiutare è un istinto”.
Enia si sofferma a lungo su chi a Lampedusa è in prima linea – ed è questo uno dei pregi del libro –, su chi deve decidere, quando è in mezzo a un mare con onde alte sette metri e le donne, i bambini, gli uomini da soccorrere sono magari ricoperti di nafta e hanno mani che scivolano via, a quali persone prestare soccorso. Con una sola occhiata bisogna decidere fra le vite di tre uomini e le vite di una madre con il figlio. E così si tirano su i tre uomini e si lasciano affondare la madre e il figlio perché tre vite sono più di due. E ci parla, attraverso la loro testimonianza, del trauma dei soccorritori, che soffrono di sindrome da stress post-traumatico come se vivessero in una zona di guerra.
Quasi tutti gli africani sepolti nel cimitero di Lampedusa non hanno un nome. Se quelle in corso fossero davvero missioni a carattere umanitario, osserva Enia, si potrebbe pensare di raccogliere informazioni dai sopravvissuti “per ricostruire almeno il nome di chi è deceduto”. E invece no. Partono subito le indagini per cercare lo scafista e il luogo da cui i barconi sono partiti: “C’è una precisa volontà di Intelligence e manca quella prettamente umanitaria”.
Evocato più volte nel corso della narrazione, il naufragio del 3 ottobre 2013 occupa l’ultima parte del libro e segna un punto di non ritorno. Ma va detto che, solo qualche giorno dopo, ci fu il naufragio dell’11 ottobre, che le autorità italiane hanno cercato di spacciare come un problema di Malta, quando l’inchiesta in corso e lo struggente documentario di Fabrizio Gatti ci mostrano l’incoscienza del governo italiano nel rimpallo di responsabilità durante quella tragica giornata in cui non fu prestato soccorso, se non con grande ritardo, a un barcone distante poche miglia da una nave della Marina militare italiana e indubbiamente più vicino a Lampedusa che a Malta.
Enia narra frammenti di storie, quelle degli africani che cercano disperatamente di ricongiungersi con le loro famiglie che vivono nel Nord Europa, ma anche di un altro, più intimo ricongiungimento: quello con il padre. Alle testimonianze dirette Enia mescola la sua vicenda personale, in particolare il rapporto con il padre e con l’amato zio Beppe, gravemente ammalato, e sia nelle pagine del suo racconto sia nelle pagine del reportage mostra di avere un dono prezioso, quello di saper ascoltare. Ci fa vedere con pudore come il saper ascoltare porti l’altro a parlare, anche se non ci è abituato, perché “parlare è un’attività da femmina”. In Sicilia i deboli parlano, i veri maschi tacciono. È un tratto distintivo del paternalismo – il paternalismo di una cultura –, un’arte che si apprende fin da piccoli: “La consegna del silenzio, soglia di quella rocca quasi inscalfibile che è l’omertà, è una conditio sine qua non per integrarsi”. E il modo in cui il dramma di Lampedusa viene inserito nel contesto culturale siciliano è un altro dei pregi di questo libro necessario.
C’è poi un viaggio che non può essere raccontato e che aleggia tra le pagine, quello nel deserto che bisogna attraversare per arrivare al mare. La storia di chi migra è a tutt’oggi il tassello mancante di questo mosaico, ci ricorda Enia. Nel titolo stesso del libro è racchiuso il fallimento della parola nel raccontare il tempo presente. “Possiamo nominare la frontiera, il momento dell’incontro, mostrare i corpi dei vivi e dei morti nei documentari”, ma la storia della migrazione potrà raccontarla solo chi l’ha vissuta. Ci dirà itinerari e desideri, i nomi delle persone massacrate nel deserto e delle violenze nelle carceri libiche, soprattutto sulle donne, perché è “sempre peggio essere donna, dalla parte sbagliata della frontiera”.
franca.cavagnoli@unimi.it
F Cavagnoli è scrittrice e traduttrice