Cambiamento climatico: numeri e politiche
di Paolo Vineis
Data la gravità della crisi ambientale e climatica, le librerie e il web abbondano di testi sull’argomento. È importante distinguere tuttavia tra le fonti primarie, come i rapporti dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) delle Nazioni unite (https://www.coolearth.org/2018/10/ipcc-report-2/) e di Unep (United Nations Environmental Programme) dai commenti derivati e secondari. A mio avviso la lettura dei primi (o almeno dei loro riassunti esecutivi) è spesso più informativa e utile del ricorso ai commenti secondari, che spesso sono di natura politica ancora troppo generale, con talune significative eccezioni. Inizierei proprio da uno dei principali rapporti primari, quello di Unep.
I fatti: l’Emissions Gap Report delle Nazioni unite
L’Emissions Gap Report di Unep è in generale uno dei documenti più importanti usciti nel 2019. Secondo il rapporto, se una seria azione di mitigazione del cambiamento climatico fosse iniziata nel 2010, i tagli di gas serra richiesti per rispettare gli obiettivi di Parigi (un aumento di temperatura inferiore a 2 gradi e possibilmente vicino a 1,5 gradi) sarebbero stati pari al 3,3 per cento per anno (per l’obiettivo di 1,5 gradi) e 0,7 per cento per anno (per quello di 2 gradi). Ma poiché questo non è avvenuto, ora i tagli delle emissioni devono essere di 7,6 per cento e 2,7 per cento, rispettivamente. Questi obiettivi sono destinati a peggiorare se prevalesse la paralisi o l’azione venisse ulteriormente rimandata. Per colmare il divario, l’Unep fissa traguardi molto ambiziosi, che includono per esempio la chiusura delle centrali a carbone e seri investimenti nelle fonti rinnovabili e nell’economia circolare.
A che cosa è dovuto il grave e crescente gap tra gli obiettivi e la loro realizzazione? Secondo Unep (ma in realtà secondo tutti gli osservatori) è legato soprattutto al ritardo negli impegni di ridurre le emissioni che hanno preso i diversi paesi a seguito dell’Accordo di Parigi, i “nationally determined contributions” (Ndc). Siamo arrivati al punto in cui sarebbe necessario uno sforzo 3-5 volte maggiore di quanto previsto negli anni passati per raggiungere gli obiettivi, e questo è dovuto al fatto che molti paesi non rispettano gli Ndc. Per esempio, solamente 2 paesi del G20 hanno una legge sul cambiamento climatico (l’Inghilterra ce l’ha dal 2008).
Cosa dice il Green Deal della Commissione europea
Il Green Deal della Commissione europea origina direttamente dalle drammatiche previsioni di Unep riassunte sopra, secondo cui ci stiamo avviando verso i 3,2 gradi di aumento della temperatura alla fine del secolo, un valore sostanzialmente incompatibile con la civiltà come la conosciamo oggi. Il Green Deal di von der Leyen e Timmermans aumenta il livello di ambizione rispetto a Parigi, fissando al 55 per cento (non più al 40 per cento) la riduzione delle emissioni da realizzare entro il 2030, e la neutralità delle emissioni entro il 2050, in linea con le raccomandazioni di Unep. Il pacchetto include una revisione delle norme di emissione per gli autoveicoli, lo sviluppo della rete ferroviaria europea (per consentire di percorrere il continente in treno anziché in aereo), lo sviluppo dei veicoli elettrici, e molti altri interventi come quelli sull’alimentazione e sull’agricoltura. Fin qui 73 paesi, 14 regioni e 398 città si sono impegnate a perseguire questi obiettivi. Ma il piano dettagliato della Ce non uscirà fino all’estate del 2020. Purtroppo i grandi paesi emettitori di CO2 (i paesi del G20 sono responsabili dell’80 per cento delle emissioni) sfuggono all’appello e hanno condotto a uno stallo delle negoziazioni.
La politica: che cosa servirebbe sapere?
La politica dovrebbe partire dai dati di Ipcc e Unep e analizzare sistematicamente vantaggi e svantaggi delle diverse scelte programmatiche. Ciascuna di esse ha infatti ricadute sia positive che negative per l’ambiente (un esempio di ricaduta negativa è l’occupazione del suolo da parte delle fonti rinnovabili di energia), e dovrebbero essere analizzate anche la rapidità e la probabilità con cui le diverse soluzioni contribuirebbero alla mitigazione del cambiamento climatico. Questi interrogativi dovrebbero essere al centro dell’agenda politica, considerato che non vi sono ancora molte certezze per accordare economia e sostenibilità. In particolare, due rapporti esprimono la contradditorietà delle posizioni esistenti, uno redatto da un nutrito gruppo di Ceo di aziende multinazionali, da agenzie governative e dalla Gates Foundation, e l’altro dall’European Environmental Bureau. Il primo documento è molto ottimistico sul fatto che il perseguimento dei Sustainable Development Goals (Sdg) – i 17 obiettivi sostenibili di sviluppo fissati dalle Nazioni unite nel 2015 e che includono la lotta al cambiamento climatico – avrà un impatto positivo sull’occupazione e sull’economia. Il secondo documento è invece molto più critico, e prospetta un ruolo abbastanza marginale per la “green economy”, in particolare riguardo alla sua capacità di influenzare seriamente il cambiamento climatico. L’assunto generale del primo rapporto, originato dal Forum di Davos del 2016 e sottoscritto da imprese e governi, è che l’industria e il commercio hanno bisogno dei Sustainable Development Goals. Secondo il documento, lo sviluppo che può derivare dal perseguimento degli Sdg creerà opportunità economiche per migliaia di miliardi di dollari nei quattro sistemi economici che sono stati analizzati, in particolare nei settori del cibo, agricoltura, salute, energia e sviluppo di materiali (cioè il 60 per cento dell’economia globale). Ma il punto di vista dell’European Environmental Bureau va quasi nella direzione opposta. La domanda che questo documento solleva, e a cui viene data risposta attraverso una rassegna sistematica delle prove, è se la crescita economica e la sostenibilità ambientale siano compatibili. E le risposte sono generalmente negative oppure non sostenute da prove empiriche. Secondo il rapporto, la validità della scommessa della “green economy” si regge sull’assunto di una completa, ampia e rapida separazione tra sviluppo economico e sostenibilità ambientale in tutti i settori attualmente sotto pressione a livello ambientale (dunque non solo il cambiamento climatico, ma anche i cicli dell’azoto e del fosforo, l’uso dell’acqua e del suolo, e così via); tuttavia non c’è nessuna prova empirica del fatto che questa separazione stia avvenendo o sia anche solo iniziata. La separazione (decoupling) o è solo relativa, cioè alla crescita economica si accompagna un modesto progresso in uno dei settori chiave, oppure è temporanea e di breve durata, in ambienti geograficamente circoscritti e con tassi molto modesti di mitigazione ambientale.
Che conclusioni dobbiamo trarre da due rapporti così contrastanti? È chiaro che i quesiti che in particolare il rapporto dell’European Environmental Bureau pone sono cruciali per sostenere la fattibilità della politica lanciata da Cop21 a Parigi. Sarebbe opportuno trovare risposte rapide e convincenti ai dubbi sollevati dal rapporto dell’European Environmental Bureau, e capire invece se l’ottimismo espresso dalla Business and Sustainable Development Commission sia giustificabile e vada dunque perseguito.
Alcuni libri di politica ambientale
Il limite di alcune letture “secondarie” o derivate dai rapporti ufficiali è che insistono nel denunciare una situazione ormai dai più giudicata insostenibile, senza soffermarsi sufficientemente sulla praticabilità delle soluzioni, incluse le contraddizioni e i lati poco chiari. Questo è il limite principale della prima parte del libro di Naomi Klein, Il mondo in fiamme, che denuncia casi già ampiamente noti come quello della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon nel 2010. Ho iniziato a leggere il libro di Klein prima di Cop25 di Madrid, cui ho partecipato, e l’ho finito dopo la deludente conclusione del summit. Quest’ultima mi ha fatto vedere il libro in una prospettiva diversa. Credo che il merito della seconda parte del libro di Klein stia nel presentare alcune possibili soluzioni (in particolare il Green Deal di Obama) e non solo denunciare i limiti e le collusioni della politica. Il problema è che anche il Green Deal e la sua versione kleiniana sono ancora a livello di quadro ideologico generale, e non c’è garanzia di un successo nei tempi brevi richiesti dalla crisi. Ci sono sicuramente molti spunti interessanti nel libro di Klein, per esempio il parallelo tra il New Deal rooseveltiano e quello di Obama e di von der Leyen. Klein ricorda la forte mobilitazione ideale degli artisti a favore del New Deal di Roosevelt, con grandi stanziamenti governativi (furono prodotte per esempio 475.000 opere d’arte visive sovvenzionate dallo stato). Il problema è che c’è in questo libro, come in altri, un evidente gap tra la denuncia, la proposta ideale (l’economia verde circolare) e la sua fattibilità.
Diverso il caso del libro di Edo Ronchi, ex-ministro italiano dell’Ambiente. Il suo testo è largamente dedicato a una disamina della percorribilità dell’economia circolare e di un Green Deal, senza nasconderne le difficoltà. Ronchi stesso solleva sull’economia verde e sul concetto di “disaccoppiamento” tra sviluppo economico e sostenibilità ambientale gli stessi dubbi ricordati sopra dell’European Environmental Bureau. Come scrive Ronchi, “il problema di un potenziale conflitto, ignorato dagli Sdg dell’Onu, tra drastici tagli di emissione di gas serra necessari per contrastare il cambiamento climatico e consistente crescita economica non è per nulla trascurabile” (considerato che uno degli Sdg prevede una crescita del 7 per cento annuo del Pil nei paesi in via di sviluppo). Ronchi passa in rassegna i settori più promettenti per lo sviluppo di un’economia verde: energia, manifattura, agricoltura, trasporti, turismo, costruzioni e rifiuti. Il libro è utile non solo perché – pur segnalando incertezze e difficoltà – presenta efficacemente le differenze tra economia circolare ed economia lineare, ma anche per la ricchezza di dati aggiornati. In effetti dal libro, come dal Rapporto annuale 2019 di Legambiente (di autori vari), risulta che l’Italia è molto più avanzata di quanto normalmente si pensi. L’Italia è molto più virtuosa della media europea per l’efficienza produttiva (materia prima o tonnellate di petrolio equivalenti usate per milione di euro di prodotto industriale), per il riciclo dei rifiuti e il recupero delle materie seconde riciclate, e per la sostenibilità (bioeconomia e chimica verde). Anche l’agricoltura italiana sembra più sostenibile di quella di altri paesi come Gran Bretagna e Germania, producendo il 46 per cento di gas serra in meno per unità di prodotto rispetto alla media europea; i nostri prodotti alimentari presentano la minore percentuale europea di residui di pesticidi (sette volte meno rispetto ai prodotti francesi, 4 volte meno di quelli tedeschi). In sintesi, il rapporto della Legambiente è molto utile per rivedere una certa immagine dell’Italia come un paese disimpegnato sul fronte dell’economia verde e del cambiamento climatico, anche se forse stenta a emergere dal rapporto una visione strategica che possa diventare una proposta solida di governo.
vineis@imperial.ac.uk
P. Vineis insegna epidermiologia all’Imperial College di Londra
Tabella. Alcuni primati italiani nell’economia verde (dove l’Italia si comporta nettamente meglio della media Europea). Dati aggiornati al 2015
Materia prima per milione di euro prodotto 307 Kg
Tonnellate di petrolio per milione di euro prodotto 14.2 tons (a)
% di cibi con residui di pesticidi 0.48% (b)
Imprese core-green (produzione di beni e servizi ambientali) 27.5% sul totale
Imprese go-green (orientate a mitigare l’impatto ambientale) 14.5%
Riduzione delle emissioni industriali 1990-2015: NOx 74%
SOx 92%
PM2.5 65%
Recupero di materia tramite riciclo di rifiuti speciali 77% (b)
Riciclo imballaggi, 2016 67%
I libri
United Nations Environment Programme: Emissions Gap Report 2019
Business and Sustainable Development Commission: Better Business, Better World
European Environmental Bureau: Decoupling debunked: Why green growth is not enough
Naomi Klein, Il mondo in fiamme. Contro il capitalismo per salvare il clima, pp. 277, € 18, Feltrinelli, Milano 2019
Un Green New Deal per l’Europa. Le idee e le sfide per rilanciare il progetto europeo. Rapporto annuale di Legambiente, a cura di Edoardo Zanchini e Mauro Albrizio, pp. 169, € 20, Edizioni ambiente, Milano 2019
Edo Ronchi, La transizione alla Green Economy, pp. 215, € 18, Edizioni Ambiente, Milano 2018
Si rimanda all’online per la lettura del Rapporto 2019 di Legambiente