Da cosa tra le cose a creatrice di mondi
di Cristina Iuli
A trentacinque anni dalla sua prima pubblicazione italiana, la ricomparsa in libreria del leggendario romanzo di Alice Walker, Il colore viola, nella nuova traduzione di Andreina Lombardi Bom per la casa editrice Sur (pp. 346, € 18) è un lieto evento editoriale che offre al pubblico italiano una lettura ancora straordinariamente fresca e ricchissima di sollecitazioni emotive, etiche e politiche, una ricognizione micro-storica sulla genesi schiavista della nazione americana e sulla sua composizione sociale, e un oggetto estetico profondamente radicato nella storia delle forme narrative americane, su cui questo romanzo si è innestato trasformandole, diventando cioè un classico.
Il romanzo narra la storia di Celie, quattordicenne afroamericana della Georgia, che incontriamo all’inizio del romanzo povera, analfabeta e ignorante, stupefatta al limite dell’ottusità di fronte alle cose della vita. Figlia – scopriremo – di un ricco commerciante afroamericano morto linciato per aver contravvenuto alle leggi di Jim Crow, che non tolleravano il connubio tra l’essere neri e condurre un’esistenza agiata. Celie cresce senza altro amore di quello della sorellina Nettie, e vive nella presenza terrorizzante del patrigno, “Pa”, un uomo senza scrupoli che la sottomette con la violenza e il potere indiscusso del pater familias, e che, dopo averla stuprata, ingravidata due volte e resa sterile, due volte le sottrae i figli, cedendola infine in matrimonio a un uomo identico a lui, l’innominabile “Mister”.
Trasferita presso la casa del marito e separata da Nettie (amatissima sorella costretta, a sua volta, a fuggire la violenza di Pa e le insidie di Mister partendo per l’Africa con la famiglia di missionari che – scopriremo – ha adottato i suoi nipoti), Celie è nuovamente vittima di un potere patriarcale che non conosce distinzioni di razza e che la trasforma in una schiava domestica: deve badare alla casa del marito, alla sua terra, ai suoi figli, soddisfare a comando le sue esigenze sessuali, ricevere senza fiatare le scariche di botte che, come eventi meteorologici, compaiono nella sua vita senza preavviso, e come leggi di natura vanno accettate. Cosa tra cose, nella disperazione e nel disorientamento assoluto di un’esistenza animale, senza voce, senza identità e incomprensibile a se stessa nella riduzione a essere abietto, Celie si rivolge a Dio iniziando a scrivergli lettere che innescano simultaneamente il racconto in forma epistolare e il processo di trasformazione e di auto-bildung della incerta scrittrice. Come preghiere, quelle lettere scritte in una lingua zoppicante nella morfologia, ma precisa nell’evocazione delle esperienze e delle sofferenze della giovane donna, e brillante nella capacità di suscitare ora commozione e ora commedia, sono lo strumento attraverso cui Celie – creatura senza voce, senza identità e senza appartenenza – proietta per se stessa sull’unico interlocutore all’altezza della sua domanda di senso: Dio.
Letteralizzazione del pharmakon che lenisce il dolore, immunizza dalla solitudine e fa crescere il soggetto nell’eloquio e nella capacità di autoconoscenza (“Caro Dio, ho quattordici anni. Sono una Sono sempre stata una brava ragazza. Magari mi puoi dare un segno per farmi capire cosa mi sta succedendo”), ma espone il malato al contatto con il virus, l’assunzione di parola porterà Celie su un lungo cammino di trasformazione e conoscenza alla fine del quale sarà diventata una donna libera, consapevole, benestante, amata e circondata da tutto ciò che pensava di aver perduto o di non meritare.
La strada percorsa da Celie traccia l’evoluzione della fabula, la costruzione del mondo della protagonista, e il dispiegamento di un raffinato intreccio epistolare a scatole cinesi che riprende l’impianto classico dei romans à clef settecenteschi per trasformarlo in macchina narrativa. Ne escono personaggi indimenticabili – e nuovi alla narrativa americana fino a questo esordio, datato 1982 – impegnati a estrarre tutta la bellezza, la gioia di vivere e la capacità di resilienza possibili dalle condizioni di vita del Sud rurale negli anni trenta – cioè in pieno regime Jim Crow – con le sue strutture di potere e orrore studiate per proteggere i privilegi dei bianchi, specie se maschi, a scapito delle donne, specie se nere, e dei bambini. Ma ne escono anche personaggi diversamente classici che corrispondono a tipi un po’ più formalizzati dal punto di vista narrativo. Ovvero, personaggi – come Nettie e Samuel e i figli di Celie – impegnati in avventure rocambolesche, descrizioni antropologiche, riflessioni metastoriche sul colonialismo britannico in Africa, i suoi legami con la schiavitù in America e la sua struttura tentacolare, che non risparmia l’attivismo missionario.
L’alternarsi di questi due livelli narrativi, che coincidono con le storie di Celie e di Nettie, separate per ricongiungersi alla fine del romanzo, è condotto magistralmente dalla scrittrice, che si muove tra il reale, il fiabesco e il picaresco, facendo affiorare alcune grandi matrici del romanzo ottocentesco americano: il romance, il romanzo di avventura, i racconti di schiave fuggiasche, e la cronaca storico-antropologica. Walker si confronta con la tradizione letteraria americana in forma inedita, affidando la coscienza narrativa alla prospettiva “dal basso” di Celie, che osserva il suo piccolo mondo dalle strutture di pensiero e di linguaggio di un black english che si fa via via più articolato con l’incalzare delle lettere, cioè parallelamente alla crescita di Celie come scrittrice e come soggetto storico. Le ricognizioni che Celie e Nettie ci consegnano di prima mano o affidano ad altri personaggi sono sempre accurate dal punto di vista sociale e storico, ma sono formate attraverso la prospettiva intima dell’esperienza della sofferenza delle donne afroamericane sotto il patriarcato bianco, e sono rese attraverso una vivace particolarizzazione del linguaggio, che distingue il grado di emancipazione delle narratrici in relazione alla loro effettiva capacità di controllare la distanza della loro lingua dalla lingua parlata. Si tratta di un elemento che conferisce al romanzo grande complessità formale ed estetica e che genera notevoli difficoltà di traduzione.
Il rapporto con la classicità filosofica americana non si esaurisce nel confronto con i modelli narrativi, ma riprende l’impianto del pensiero trascendentalista, di cui Walker si appropria per declinarne in senso anti-patriarcale l’universalismo spirituale, ovvero per ricentrarne lo slancio verso il divino a partire dall’esperienza Womanist, che rimanda, nel conio di Walker, al vissuto femminile afroamericano. La strada percorsa da Celie la condurrà, infatti, alla conversione radicale o, meglio, alla rinascita in una religione che trascende congregazioni, dottrine, poteri e sacerdoti per pervenire alla consapevolezza dello spirito, all’esperienza del piacere, della bellezza e dell’amore immanente a tutte le cose viventi. Per questa ragione, il romanzo – pur rimanendo imprescindibile testimonianza storica e politica di cosa significhi essere soggetti “violati alla violenza” – è anzitutto un romanzo filosofico, che salda la riflessione esistenziale alla ricerca della presenza dello spirito divino dentro di sé e in tutte le cose.
Il Dio a cui Celie si rivolge all’inizio del suo cammino la instrada verso la scoperta di sé mettendola di fronte al desiderio, rendendola testimone di varie forme di amore, odio, pazienza, coraggio, e facendole intuire, anche per mezzo di aiutanti indomite – ribelli e forti come Sofia, o sexy e spavalde come Shug Avery, la cantante di cui Celie è innamorata – di appartenere alla comunità, perché sa fare cose ben fatte, è capace di tenere insieme e riparare ciò che gli uomini spezzano o corrodono, e perché – nella sopportazione – ha diritto a un posto nel mondo. Ma quel Dio è una fabbricazione dei bianchi, un’altra forma di abuso, di espropriazione della sua fede grande. Come le suggerisce Shug, quel Dio è un uomo bianco che: “sta sulla scatola della tua pappa di mais, nella tua testa, e pure la radio ne è piena. Cerca di farti credere che è dappertutto. Appena cominci a credere che è dappertutto, credi che sia lui Dio. Ma non lo è. Ogni volta che tu cerchi di pregare, e l’uomo si piazza all’altro capo della tua preghiera, mandalo a quel paese, dice Shug. Fatti venire in mente dei fiori, il vento, l’acqua, una grossa pietra”.
Quando, nella seconda parte del romanzo, Celie scopre la verità sulla sua famiglia, su sua sorella, sulla cattiveria di Mister, sul furto di futuro con cui Pa ha condannato lei e Nettie, comprende anche il potere incarnato da quel Dio normativo inventato dai bianchi per i bianchi, il venerando con la barba bianca e i capelli lisci, troppo a lungo appisolato per sentire il racconto dolente di Celie e delle sue sorelle, ed è infine matura per farlo fuori: “Cerco di mandarmi via dalla testa quel vecchio bianco. (…) Ma Lui sta lì da tanto tempo che ora non si vuole muovere. Minaccia fulmini, alluvioni e terremoti. Allora lottiamo. Io quasi non prego più. Ogni volta che mi faccio venire in mente una pietra, gliela tiro.” La svolta è la presa di coscienza di un atto politico a cui Celie si è preparata con l’aiuto di Sofia e Shug in lunghi anni di resistenza ai piccoli patriarchi domestici e al razzismo, che a Sofia è costato undici anni di carcere. È un atto che pone le premesse per la conversione “pagana” di Dio da suprematista patriarcale bianco a spirito divino, totalità di alberi, stelle, vento e intero universo, e di Celie da prigioniera spirituale a spirito libero, natura, espressione radiosa di quanto percepito fino a quel momento come distante divinità.
Non a caso, nella prefazione all’edizione per il trentennale del romanzo, che ha venduto milioni di copie, le è valso il premio Pulitzer, l’American Book Award for Fiction, ed è stato portato alla coscienza di decine di milioni di spettatori da Steven Spielberg nel 1985, Walker ha dichiarato: “Il colore viola resta per me l’opera teologica che esamina il cammino a ritroso dalla religione alla spiritualità, un cammino che per molti anni della mia vita adulta ho cercato di eludere”. È lo stesso cammino cosparso di insidie che trasforma Celie da piccola cosa abietta in tessitrice di mondi, ricostruttrice di legami sociali, creatrice di bellezza, portatrice di cura e donna libera e felice.
cristina.iuli@uniupo.it
C. Iuli insegna lingua e letteratura nordamericana all’Università del Piemonte orientale