In ricordo di Franco Rositi – Colin Crouch, Combattere la postdemocrazia

Apprendiamo con molta tristezza la notizia della morte del sociologo Franco Rositi, storico collaboratore della nostra rivista, che contribuì a fondare. Per ricordarlo, pubblichiamo la sua ultima recensione per “L’Indice”, uscita sul numero di dicembre 2020. 

 

Le strane alleanze antidemocratiche

di Franco Rositi

Colin Crouch
Combattere la postdemocrazia
trad. dall’inglese di Marco Cupellaro,
pp. 216, € 18,
Laterza, Roma-Bari 2020

Colin Crouch ha coniato il termine postdemocrazia con il suo Coping with Post-Democracy venti anni fa (Fabian Society, 2000). Alessandro Pizzorno, con lui docente all’Istituto universitario europeo di Firenze e con lui autore di una ampia ricerca comparativa sulle lotte sindacali in Europa dopo il 1968, lo convinse ad ampliare quel primo testo e a pubblicare con Laterza Postdemocrazia (2003). Qui Crouch individuava i sintomi di un declino non della democrazia formale, ma dei processi di partecipazione politica realmente incidenti. Questo declino era dovuto a vari fattori: certamente anche al venir meno delle appartenenze socioeconomiche “naturali” (il darsi di una classe di lavoratori resa omogenea dal capitalismo fordiano) e delle appartenenze religiose, ma soprattutto alla crescita di poteri economici transnazionali (globalizzazione e capitalismo finanziario in un quadro neoliberista): ridotta alle questioni marginali restate a portata dei singoli stati, e sempre più dipendente dalle sorti e dalle reazioni dei “mercati” (rigorosamente al plurale per connotarne l’ubiquità e l’impersonalità), la competizione democratica avrebbe perso molto della sua capacità attrattiva, e non solo nella popolazione generica, anche nelle menti dei ceti dirigenti e delle élite culturali. Negli anni successivi Crouch ha ripreso in vari scritti i temi del neoliberismo, della globalizzazione, dei risorgenti nazionalismi. Ed ora ritorna con questo libro sul tema centrale del declino democratico. Anche se si considerano soltanto gli anni dopo il crollo del regime sovietico, per un primo decennio pervasi dalla sconsiderata apologia della democrazia occidentale, Crouch certamente non è stato il primo, né sarà l’ultimo a scrutare lo sfaldamento degli ideali democratici. Del 2006 è la paradossale tesi di Pierre Rosanvallon La contre-démocratie (Sevil, 2006 tradotto come Controdemocrazia: La politica nell’era della sfiducia nel 2012 per Castelvecchi), incline a scorgere una sorta di astuzia della ragione democratica anche nell’oscura visceralità dell’antipolitica; del 2018 è il libro brillante e complesso di David Runciman, How Democracy Ends (Profile Books, tradotto per Bollati Boringhieri, Così finisce la democrazia, 2019). La riflessione di Crouch si caratterizza per una posizione dei problemi più sobria, più essenziale, di conseguenza anche per un più netto sentimento di preoccupazione. Inoltre, il suo tornare su di una tesi di venti anni fa permette di osservare al vivo il progredire dell’analisi in concomitanza con le variazioni del contesto storico. Il tema più nuovo in Combattere la contro-democrazia riguarda l’insorgenza delle tendenze politiche sovraniste, contrarie alla globalizzazione. Crouch si rifiuta di ascrivere tali tendenze entro la categoria del populismo: per certi aspetti l’irrompere rumoroso del rozzo populismo entro le sale ovattate di élites autoreferenti può rappresentare una ripresa del movimento democratico. Come per Rosanvallon, potrebbe risiedere nel populismo una sorta di vitalità politica. Ma per Crouch ciò che più è preoccupante è per così dire il contenuto di tale vitalità, la particolare opzione politica di molte correnti populiste, la loro professione di impotenza verso i processi di globalizzazione, il loro voler tornare indietro, e non necessariamente verso la gloriosa stagione del welfare state, ma anche verso privilegi perduti o privilegi sperati (ne è segno la composizione in gran parte piccoloborghese dei movimenti populisti). Crouch conia a questo proposito l’espressione icastica di pessimismo nostalgico. Probabilmente la parte più importante del libro è proprio nell’analisi di questa sindrome ideologica. Ancor più interessante, ma forse meritevole di qualche supplemento di analisi, è il rapporto ambiguo, e inatteso, fra parti rilevanti della tradizione neoliberista e parti rilevanti del nuovo pessimismo nostalgico. Pur per motivi diversi entrambe sono insofferenti verso le regole e i controlli del potere statuale e delle istituzioni regolative intermedie. Gli esempi principali che Crouch avanza sono nella irresistibile ascesa di Trump e nel successo della Brexit. Più in generale dovremmo pensare a certa condiscendenza di ambienti conservatori, sicuramente a matrice neoliberista, verso i rischi dell’irrompere sulla scena politica del populismo-trash: si pensi, per l’Italia, all’alleanza fra Berlusconi e Salvini (la resiliente araba fenice della politica nostrana), alla corsa verso il baratro che la Confindustria ama di tanto in tanto intraprendere con ottuse rivendicazioni e atteggiamenti protestatari, alla strana mescolanza di salvinismo e di giustizialismo e statalismo che vige in parti non marginali del Movimento 5 stelle. Ancor più in generale dovremmo riflettere sulla incapacità delle élite culturali e scientifiche di sbarazzarsi una volta per tutte del vitalismo irrazionalistico che potremmo mostrare essere alla base anche della tradizione neoliberista. Per comprendere le ambiguità dell’establishment culturale è istruttivo il caso del premio Nobel per l’economia 2013, assegnato a tre studiosi per le loro analisi sulla variabilità degli asset prices: uno dei tre, Robert Schiller, che nel 2000 aveva descritto l’“esuberanza irrazionale” degli attuali mercati finanziari, e poi previsto la grande crisi del 2007-2008, nella cerimonia di assegnazione del Nobel svolse una lecture sulle fallacie della tesi dei mercati efficienti che era stata avanzata già nel 1970, e venerata poi nelle business school di tutto il mondo, da un altro dei tre premiati, Eugene Fama. In tale equidistanza dell’istituzione premio Nobel è da vedersi il pluralismo delle nostre democrazie, oppure uno dei compromessi pragmatici della nostra alta cultura? Come si combatte la postdemocrazia? Come in scritti precedenti, Crouch, scartate le catastrofiche chiusure sovraniste, ripete che la via maestra è quella di una democratizzazione degli organismi sovranazionali, non solo istutuzioni come l’Ue, ma anche organismi internazionali come Ocse, Fmi e Banca mondiale, e altre istituzioni non elettive che proteggono la democrazia: giudici, stato di diritto, autonomia delle banche centrali (almeno entro i limiti di direttive di lunga durata), servizi statistici, informazione, corte di giustizia europea. Fondamentale è inoltre il rinnovamento di una sana opinione pubblica che metta fine allo strazio dell’attuale politica-spettacolo. Più in generale è da evitare la commistione fra ceti dirigenti economici, politici e culturali. Ovviamente occorre riflettere anche su quali siano i soggetti capaci e disponibili per un rinnovamento degli ideali democratici. Qui registriamo alcune novità fra il Crouch di oggi e quello di una ventina di anni fa. La novità minore è che oggi Crouch non pone più fiducia in cose come la rete e i social. Si prenda atto con soddisfazione di questo mutamento di rotta (anche se già fra fine Novecento e nuovo secolo avrebbe dovuto apparire chiaro l’euforico irrazionalismo che governava quelli che in un bel libro del 2000 Carlo Formenti chiamava gli Incantati dalla rete). La novità maggiore è che oggi Crouch, pur continuando a desiderare una rivitalizzazione della “politica dei partiti” mediante gli innesti di una “politica dei movimenti”, pone molto più affidamento in una generale diffusa insofferenza di parti rilevanti della popolazione nei confronti delle catastrofi economiche e politiche che si annunciano. Ma come può una opinione pubblica dispersa e generica lavorare con continuità e con competenza tattica per una trasformazione delle regole che presiedono l’attuale sregolato mercato globale?