Un Mercurio dagli occhi color nocciola
di Bianca Maria Paladino
dal numero di gennaio 2018
Il fascino di Bobi Bazlen ha colpito ancora, e naturalmente una donna: Cristina Battocletti. Lo confessa lei stessa a conclusione del volume Bobi Bazlen. L’ombra di Trieste, edito da La nave di Teseo (pp. 392, € 19,50). Una serie di coincidenze la riconducevano a questo personaggio il cui mito aleggia ancora nel mondo dell’editoria. Persino Giulio Einaudi “ne aveva paura e stima insieme” per le doti di lettore e traduttore dell’animo umano e di testi inediti. Come poteva dunque l’autrice, giornalista dell’inserto culturale del “Sole 24 ore”, nonché scrittrice, rinunciare alla tentazione di definire il profilo umano ed intellettuale di Bazlen?
Ci aveva già provato Daniele Del Giudice, con il suo primo romanzo (Lo stadio di Wimbledon, Einaudi) nel 1983. La sua curiosità di giovane scrittore si era concentrata sul perché un uomo capace di fiutare la straordinarietà di un libro e di guidare abilmente l’autore verso la perfezione del testo e la pubblicazione non avesse mai scritto un romanzo di successo, ed anzi fosse sempre stato inibito dal farlo. Del Giudice usò il pretesto letterario delle testimonianze di due donne chiave nella vita di Bazlen (l’amica Margarete Frankl detta Gerti, e Ljuba Blumenthal, la donna che amò) per affrontare il tema del rapporto tra vita e scrittura, risolto da Bobi in favore della vita votata agli altri ed alla scrittura di altri.
I luoghi di Bobi Bazlen
Cristina Battocletti invece ha scelto di seguire “fisicamente” la sua ombra nei luoghi, nelle vicende private, nelle relazioni amicali e sentimentali, nelle corrispondenze, nelle testimonianze spesso contraddittorie dei suoi amici, nei rapporti con altri intellettuali (Montale, Saba, Svevo, Quarantotti Gambini, Mattioni), con gli editori (Astrolabio, Frassinelli, Guanda, Boringhieri, Einaudi, Bompiani, Nuove Edizioni di Ivrea, Bocca), nelle sue decise insistenze sulle irrinunciabili traduzioni di Kafka e Musil, nel suo rapporto con la psicoanalisi, con l’astrologia, con l’esoterismo, pervenendo alla seguente interpretazione: le sue elevate doti intellettuali insieme alla tendenza al nomadismo e alla generosità, persino all’incapacità di provvedere alle cose materiali della vita quotidiana, sarebbero l’esito di nodi biografici irrisolti cui l’influenza della città di Trieste e del clima intellettuale che vi si respirava nei primi anni del Novecento avrebbero contribuito in modo determinante. Lo conferma Ljuba: “Poteva essere cresciuto soltanto qua. Era un fiore di questa città, e di quella particolare epoca di questa città” (Lo stadio di Wimbledon). Per Bazlen il rapporto con Trieste, nella quale aveva vissuto una gioventù allegra, rimase infatti un tabù irrisolto (vi nacque nel 1902 e nel 1937 l’abbandonò per non ritornarvi che in pochissime e brevi occasioni). A corredo del testo – singolare per la quantità di notizie e dettagli – l’autrice ci offre un ampio elenco di documenti (interviste, archivi, carteggi, documentari, film, fotografie) e fonti bibliografiche. E, a racconto chiuso, una elencazione in circa settanta pagine delle “leggende formate attorno a (al mito) Bazlen”, che in verità, ci sembra ridurre la ricchezza degli argomenti forniti per dimostrare la complessa identità del personaggio nel corpo della narrazione.
Perché se è vero che questo straordinario intellettuale – le cui doti di acuto e ideologicamente non condizionato lettore di testi si sono manifestate fin da giovanissimo – ha rappresentato un importante riferimento per la nascita di una editoria aperta ad autori provenienti dalla tradizione mitteleuropea e di segno opposto a quella cosiddetta di sinistra, è di assoluta importanza sottolineare come questa produzione editoriale fosse l’altra espressione della funzione pedagogica svolta dall’editoria italiana nel rispetto di una democrazia culturale autentica. È probabile anzi che proprio il senso di responsabilità civile, intrinseco nell’atto della pubblicazione di un testo, specie quando esso si rivela come “unico”, inibisse Roberto Bazlen dal presentarsi al mondo come scrittore. I suoi scritti sono infatti pochi e pubblicati postumi (Il Capitano di lungo corso, Note senza testo, Lettere editoriali, Lettere a Montale, tutti raccolti in Scritti, a cura di Roberto Calasso, Adelphi, 1984).
Coincidenze
Proporre invece, negli anni quaranta, la pubblicazione delle opere di Jung, Freud, Nietzsche, offrire al pubblico libri complessi che aprivano le coscienze all’“irrazionale” era un progetto non facile da accogliere per qualsiasi editore. Troppo vicini erano gli esiti nefasti delle ideologie conservatrici che proprio ai miti e all’irrazionale avevano attinto i loro fondamenti. Ma va detto anche che in quegli stessi anni, dal 1940 al 1948, Bazlen non era il solo a proporre certe nuove discipline e autori; anche Pavese, con la collana viola, apriva all’antropologia, alla psicoanalisi, e dibatteva con Ernesto de Martino sul modo in cui dovessero essere presentati al pubblico questi testi, con o senza commento introduttivo (lo conferma Giulio Einaudi in una intervista a più voci con Natalia Ginzburg, È difficile parlare di sé, Einaudi, 1999). La collana viola ceduta a Giulio Bollati costituì il patrimonio su cui si fondò la casa editrice Bollati Boringhieri nel 1987 (che infatti ha pubblicato tutte le opere di Freud), mentre le opere complete di Nietzsche, a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari, su liberatoria di contratto con Einaudi, costituirono il fondamento della sezione dei saggi dell’Adelphi, nata nel giugno del 1962 (tre anni prima della morte di Bazlen, luglio 1965).
Ha dunque ragione Battocletti a dire che il nome di Bazlen si incrocia con delle coincidenze. Ma sempre i libri e la lettura segnano tracce apparentemente invisibili di percorsi convergenti. Lo studio dell’editoria vuole essere proprio questo. Non può bastare solo ricostruire le singole storie, è necessario sempre riconoscere il tessuto che le tiene, spiegare come le esperienze singolari e diverse siano in realtà facce di un medesimo contesto storico, culturale. Come non notare ad esempio che Bazlen e Pavese, opposti in termini di personalità e anche di ruolo nel mondo editoriale, hanno maturato ad un certo punto della loro vita intellettuale, avida di letture di ogni tipo – e negli stessi anni – l’esigenza di aprirsi ai medesimi orizzonti (il mito, l’irrazionale)? Come non notare che Bazlen, Foà e Colli, pur partecipando al dibattito intellettuale interno alla Einaudi, presero le distanze da essa perché avvertivano un limite nel progetto culturale e politico della casa editrice e nella sua meditata organicità? Essi non riuscivano ad esprimere pienamente la libertà di iniziativa che avrebbero poi realizzato con la proposta culturale alternativa e sistematica nella asistematicità dell’Adelphi e dunque incompatibile con il modello einaudiano (come spiega Gian Carlo Ferretti in Storia dell’editoria letteraria in Italia, Einaudi, 2004). D’altronde, lo stesso Pavese, a fine anni quaranta, visse contrasti e un certo isolamento nella casa torinese, proprio per la scelta ostinata di pubblicare Kerényi. Dunque l’esigenza di aprirsi al mondo intuita precocemente da quei lettori avanguardisti del Novecento ci ha fornito gli strumenti per accedere ad un futuro civile che forse non siamo stati in grado di costruire solidamente. Essi hanno lasciato l’impronta dell’editore, per citare il titolo del testo di Roberto Calasso del 2013.
L’Adelphi
Certamente Bazlen l’ha lasciata in Adelphi, nel maggio del 1962 nella villa di Ernst Bernhard a Bracciano, nel giorno del ventunesimo compleanno di Calasso. In quella occasione prospettò la pubblicazione dell’edizione critica di Nietzsche e poi di Burney e di Kubin, di libri unici, ovvero di libri che sono il frutto di qualcosa, di un fatto che è accaduto all’autore, che si è depositato in lui e nella sua scrittura e del quale il lettore percepisce e recepisce la straordinarietà, la sua perfezione nella immaterialità, prima ancora che nella materialità. Il libro deve quindi consegnare al pubblico il medesimo stupore ed emozione che ha provato il suo primo lettore. Dal punto di vista editoriale infatti saper leggere è più importante che saper scrivere, perché un editore sceglie e indica, attraverso il catalogo, i testi di una “piccola biblioteca” ideale a cui i lettori attingono. Bazlen che era stato consigliere editoriale di molti editori, si era sempre riservato l’autonomia suggerendo a ciascuno di essi i testi nei cui cataloghi meglio si sarebbero collocati. Altrettanto fece con gli autori, come dimostrano i capitoli del testo recensito, su Svevo, Saba, Mattioni e particolarmente quello su Quarantotti Gambini.
Già Adriano Olivetti gli aveva affidato il compito di stilare il programma di una casa editrice, ma le edizioni Comunità, nate diversi anni dopo, non accolsero tutti i suoi suggerimenti. Ciò divenne possibile solo grazie all’affinità ideale tra lui, Foà, Calasso, Colli, Montinari, Solmi, Rugafiori, Cappelletti e Piero Bertolucci, con la creazione dell’Adelphi. Essi adottarono molte delle sue schede di lettura e seppero dare continuità a quelle scelte trasversali e necessarie alla conoscenza del mondo in tutte le forme in cui si rappresenta, traducendo quella coerenza ideale che Bazlen non volle delimitare in un progetto, ma che espresse con la sua vita. È ricorrente la testimonianza che la sua vita erano le altre persone. Persino Carlo Levi, che ne L’orologio, 1950, ne traccia nel personaggio di Martino un ritratto terribile, dice di lui: “Egli è un accompagnatore di anime, delle anime altrui; un Mercurio dagli occhi color nocciola. Egli le accompagna volentieri, e con molta pazienza e molto garbo, in un suo limbo simbolico. Quelle anime sono in gran parte anime femminili”. La vivacità e voracità con cui ha vissuto, sia intellettualmente sia fisicamente, dimostrano come “La sua vita, così com’era, è stata il suo capolavoro” (Ljuba a Del Giudice); un capolavoro di discrezione che ne ha ingigantito l’ombra nel panorama culturale italiano della prima metà del Novecento. Ma allora che tipo di libro è quello di cui abbiamo parlato fino ad ora? Come lo si può definire? Certamente non si tratta di un saggio di studi editoriali, pur offrendo, inevitabilmente, un contributo a questo segmento di ricerche. Direi che è una biografia che sembra un romanzo, che fa il punto sul personaggio e sulle fonti di studi e documenti. Senz’altro un testo di narrativa la cui originale struttura ricorda un poliedro di specchi in cui si rifrange continuamente l’immagine del personaggio attraverso il racconto fatto da altri. Rincorriamo Bazlen per tutto il libro, ma non lo raggiungiamo mai, non lo tocchiamo mai. Lui corre più velocemente di noi, ci precede sempre.
bianca.maria.paladino@alice.it
B M Paladino è studiosa dell’industria editoriale