Destabilizzare l’ordine pubblico per stabilizzare il potere politico
di Carlo Fumian
Calogero, Grassi, Nunziata, Tamburino, Turone, Zincani, Zorzi
L’ITALIA DELLE STRAGI
Le trame eversive nella ricostruzione dei magistrati protagonisti delle inchieste (1969-1980)
a cura di Angelo Ventrone,
pp. XXII + 242, € 19,
Donzelli, Roma 2019
Sembra lo scenario di un film di Netflix sui Narcos messicani, ma è un pezzo della storia dell’Italia repubblicana: sette stragi mai rivendicate (se non a scopo di depistaggio) che provocano 135 morti e 560 feriti; molte altre “mancate” – e dimenticate – ma potenzialmente altrettanto letali per quantità e qualità dell’esplosivo impiegato (due per tutte, scelte per i loro eventuali esiti catastrofici, e perché contribuiscono a spiegare il “ritorno” della strategia stragista neofascista: l’attentato al Consiglio superiore della magistratura, 20 maggio 1979, e quello al Palazzo comunale di Milano, 29 luglio 1980, dunque pochissimi giorni prima della strage di Bologna); fiumi di sangue e brandelli di corpi bruciati e sfigurati su treni e in piazze gremite, stazioni, questure; impiego di auto-bomba; colpi di stato tentati o minacciati; complicità attiva e passiva di servizi segreti nazionali e stranieri; omertà di potenti uomini politici; regie e interventi di “poteri occulti” (non un fumoso modo di dire di complottistica matrice ma specifici soggetti contraddistinti da segretezza, contropotere e illegalità dell’azione, secondo la definizione datane fin dal 1983 da Angelo Ventura, ora in Per una storia del terrorismo italiano, Donzelli, 2010). A cinquant’anni dalla strage “inaugurale” del 12 dicembre 1969 alla Banca nazionale dell’agricoltura di Milano ecco ora un libro rivelatore sullo “stragismo” italiano, brutto neologismo che la nostra storia ci ha obbligati a coniare. Un libro che credo e spero lascerà il segno, sia nel campo della ricerca storica che nella coscienza civile di questo paese. Introdotto e curato da Angelo Ventrone, studioso che di terrorismo ben se ne intende (il suo La strategia della paura. Eversione e stategismo nell’Italia del Novecento, pp. 312, € 22, Mondadori, Milano 2018, è fresco di stampa), non è scritto da storici ma da alcuni dei magistrati che spesso eroicamente – diciamolo senza timore – hanno condotto indagini estremamente difficili e rischiose per scoperchiare il verminaio del terrorismo neofascista, scoprendo amaramente che al vertice della strategia delle bombe vi erano uomini e apparati di quello stesso stato che avrebbe dovuto proteggere la vita di cittadini inermi, la democrazia, la Costituzione. Altri sono morti e qualcuno, come Emilio Alessandrini, che moltissimo aveva contribuito alle indagini su piazza Fontana, falciato con tragica ironia da bande armate del terrorismo rivoluzionario di sinistra. Ecco i nomi e in sintesi estrema i temi: Pietro Calogero (stragi di piazza Fontana, Peteano e questura di Milano, golpe Borghese e Loggia P2), Leonardo Grassi (Italicus), Claudio Nunziata (il progetto stragista), Giovanni Tamburino (Rosa dei Venti e “golpe bianco” di Edgardo Sogno), Giuliano Turone (P2 e destra eversiva), Vito Zincani (stazione di Bologna), Giampaolo Zorzi (Piazza della Loggia).
Dopo aver reso un immenso servizio alla giustizia questi magistrati ora cercano di renderlo alla storia, e speriamo che gli storici, come giustamente scrive Ventrone nella sua introduzione, si liberino di alcuni radicati pregiudizi nei confronti delle fonti giudiziarie. Che non sono solo sentenze, ma quel coacervo di fonti, composto da interrogatori, testimonianze, documenti, perizie (ahimè di faticoso reperimento, se non ancora digitalizzati) che agli storici sono essenziali – se lette criticamente – non per “rifare i processi” ma per ricostruire il contesto, i protagonisti e le strategie dell’offensiva terroristica che per più di un quindicennio, nel rigido quadro della guerra fredda, sconvolse l’Italia, cerniera geopolitica cruciale e “ventre molle” dell’alleanza atlantica. Non usarle è rinunciare al buon metodo storiografico, un po’ come ridursi a scrivere la storia delle relazioni internazionali ignorando le fonti diplomatiche, o la storia economica trascurando dati e statistiche.
Da queste limpide e accurate ricostruzioni, asciuttamente fattuali, mi pare emergano alcuni punti fermi.
1) Le stragi sono state compiute da elementi del neofascismo italiano, in primis da Ordine nuovo veneto, ma la presenza di una rete transnazionale di organizzazioni eversive di estrema destra, vissuta fino alla metà degli anni settanta anche all’ombra di governi apertamente dittatoriali nell’Europa meridionale, non è in grado di spiegare da sola la virulenza del fenomeno né la sua durata.
2) Le stragi sono lo sbocco di una strategia elaborata fin dai primi anni sessanta non dal neofascismo ma da forze interne allo stato e all’alleanza atlantica e imperniata sulla “guerra non ortodossa al comunismo” da combattere “con qualunque mezzo”, compreso il terrorismo.
3) La strategia che accomuna tutte le stragi dal 1969 al 1980 ha un’unica matrice organizzativa e non serviva a realizzare improbabili colpi di stato di marca neofascista ma – come scriverà un attendibile protagonista, il neofascista Vincenzo Vinciguerra, mai pentito, autore della strage di Peteano in cui morirono tre carabinieri – a “destabilizzare l’ordine pubblico per stabilizzare il potere politico”, nel quadro dell’alleanza atlantica.
Insisto brevemente su Vinciguerra perché è una voce riconosciuta come molto attendibile da numerose Corti, perché decise di autoaccusarsi senza chiedere sconti di pena e infine perché la strage di Peteano fu l’unica “integralmente fascista” dunque paradossalmente “anomala”, ma che immediatamente trovò opportuna copertura (per accreditare ancora una volta la pista anarcoide), finendo per rientrare nelle modalità operative della strategia generale. Per Vinciguerra il progetto eversivo si sviluppò “lungo due linee direttrici: l’azione diretta e l’omissione ovvero la copertura; l’azione diretta affidata ai civili inseriti in una struttura mista o reclutati per la bisogna negli ambienti politici più fervidamente anticomunisti o predisposti all’azione. L’omissione e la copertura affidate ai centri CS (controspionaggio), agli ufficiali preposti all’ordine pubblico”. Nei primi anni settanta Vinciguerra pensava di andare a combattere in Africa, a difesa della Rhodesia bianca “che vacillava sotto i colpi degli indigeni che volevano il potere e l’indipendenza”. Rinuncerà, perché: “Per chi voleva combattere c’era posto e possibilità anche in Italia (…) e forse una tuta mimetica e un paio di anfibi e un mitra avrei potuto usarli anche sulle montagne italiane il giorno in cui avremmo avuto la forza di iniziare una guerra di liberazione contro lo stato, la NATO e gli Stati Uniti. Non sapevo ancora, in quel 1970, che i miei ‘camerati’ facevano parte della forza antiguerriglia preposta alla difesa dello stato, della NATO e degli Stati Uniti” (corsivo mio).
Con L’Italia delle stragi, scritto con ammirevole capacità di sintesi, dovizia di “fatti acclarati” e grande lucidità interpretativa, siamo dunque di fronte a un salto interpretativo, di cui bisogna prendere atto. Allo stragismo italiano è mancato finora l’aggettivo più importante, che ne evidenzia la specificità e al tempo stesso il carattere agghiacciante: istituzionale. Come ogni buon libro, apre piste di ricerca. La prima invita a riconsiderare il peso dell’anticomunismo. È infatti errato sottostimare la forza del “sentire anticomunista” di quegli anni: ampi apparati dello Stato erano pervasi da una così ferrea ostilità al comunismo da far loro dimenticare la Costituzione, come candidamente ammetterà nel 1997 un capo dei servizi segreti nostrani, il generale Maletti, che giustificava il proprio operato perché nessuno aveva spiegato loro che “dovevano difendere la Costituzione”. La seconda incita a ragionare sulle responsabilità politiche. Ma qui la parola spetterebbe alle massime autorità dello stato, che dovrebbero sentire il dovere di raccontare cosa accadde in alcune segrete stanze, cinquant’anni fa. Siamo pronti ad ascoltare, sine ira et studio.
carlo.fumian@unipd.it
C. Fumian insegna storia contemporanea all’Università di Padova