Il demonio ficcanaso
di Danilo Bonora
Alessio Torino
Al centro del mondo
pp. 264, € 18,50,
Mondadori, Milano 2020
È stato osservato che uno scrittore molto ammirato da Alessio Torino come Paolo Volponi – sperimentale, realistico, lirico, regressivo – non era un tipo facile da classificare. L’incandescente querelle narrativa del romanzo Corporale (Einaudi, 1972), ad esempio, si poteva leggere perfino come il sibillino e verboso viatico a qualcosa di augurabile ma che non sarebbe mai avvenuto: “non ci sarà nessuna fine del mondo”, dice a Gerolamo Aspri un giovane medico spiaggiato a Urbino. Di volponiano certo sono presenti in Al centro del mondo l’apriori della paranoia del protagonista, il giovanissimo Damiano, e il suo desiderio ossessivo e angoscioso di fermare il tempo nel transito dall’integrità del passato alla pretenziosa impotenza del presente. Il “luddismo suicida” dei tristi cavalieri volponiani, ha scritto Matteo Marchesini, segna alla fine una cupa convergenza di caratteri contraddittoriamente esplosivi. Se ci sono romanzi che non fanno che iniziare e altri che non fanno che finire, il ruvido racconto di Torino per molte pagine sembra non decidere, avventurandosi per un sentiero tortuoso di partenze e conclusioni provvisorie fino all’ermetico dénouement, che fine di un mondo lo è. I personaggi abitano in una località marchigiana un po’ isolata, ancestrale e senza tempo: un’antica fattoria, Villa la Croce, detta la Villa dei Matti, dove la famiglia Bacciardi alleva api che fanno un miele straordinario, la Manna, capace di rendere fertili le spose in men che non si dica. Ci vivono nonna Adele dalle mani d’oro, nonno Lello, ex partigiano taciturno e solitario, lo zio Vince (un faulkneriano “sturdy yeoman farmer”, giocatore con un debole per le femmine facili e la schnapps), lo stralunato diciassettenne Damiano, l’orto della vicina Anna, i campi di Mario Baldeschi, e infine l’ombra di un suicida, Pietro Bacciardi, il padre di Damiano, impiccatosi dieci anni addietro a una quercia secolare. Rimasta secca dopo la disgrazia, poi miracolosamente rinverdita, è tra le cause dei disturbi del figlio, ad apertura di romanzo risoluto ad abbatterla con una pesante accetta.
La storia è narrata attraverso lo spirito inquieto e fobico del ragazzo, soprannominato Psycho dai compagni di scuola, attaccato come un’edera alla saldezza di nonna Adele e ai silenzi oracolari di un nonno immobile quale un’erma all’ombra dei ciliegi. La fattoria sta andando verso un declino ineluttabile, assediata dai Suv e dalle tangenziali; zio Vince vuole trovare un compratore, che ne faccia pure un resort e rada al suolo questo tesoro stratificato e mormorante di chiesette e muri fatiscenti, poiane, arbusti, arnie multicolori, odori limonosi di tigli. Damiano invece è ben deciso a difendere Villa la Croce dalla trivialità degli affaristi; li fa fuori uno dopo l’altro con la complicità delle api, di madre natura, della ierofanica Santa Maria delle Stelle, lì apparsa nel 1494 e dedicataria di un santuario diroccato, facendo bon usage del suo dereismo e della sua delirante introversione high functioning, avvolta da una matassa di sensi. Totalmente school free e privo di cultura riflessa, sa interpretare il linguaggio primigenio delle rondini, dei pruni, delle lucciole, della “pietra delle case”, come aveva rivelato in un tema scolastico, mettendo in imbarazzo (figurarsi) l’insegnante di sostegno.
Gli acquirenti e i predatori – due macedoni che lavorano nelle stalle – vengono dunque liquidati con la temporanea collaborazione del madonnaro tossico e vagabondo Teo Van Gogh (col suo pappagallo Montezuma porta nella fattoria, come se non bastasse, una ventata di realismo magico sudamericano), ma soprattutto dei piani di volo sovrannaturali degli sciami. Il Meneghello di Libera nos a Malo aveva pur visto “nel zufolo delle api filandiere” il bandolo “di una cosa che dardeggiava dentro e fuori dal tempo”, l’evasione dal carcere dello stiff and stubborn man-locked set di Wallace Stevens, e raccomandato di “non giocare con la Ava, viene dalla zona dei noumeni…”. Anime del mondo e al contempo parte della mente divina, decollate dal pitagorismo e dal mirabile quarto libro delle Georgiche (“esse apibus partem divinae mentis et haustus / aetherios…”), toccano di nuovo terra nelle Marche dei capannoni e delle Mercedes Classe G “da combattimento”.
Alla fine viene sfrattato anche un gruppo di fricchettoni olandesi (Damiano li chiama “i porci”), dove brilla il sex appeal della bella Joyce, concupita nel monologo interiore del ragazzo con finezza quasi ovidiana: prima un “piede delizioso in un sandalo di cuoio, con il cinturino alla caviglia”, poi “la massa dei capelli sulla nuca”, “una ciocca appena sudata”, il “tintinno sessuale del ciondolo che porta al fianco”. Destinataria dell’anello avito di nonna Adele, è la sposa tanto attesa, con cui nasce un’intesa carnale di poche parole (lui non sa l’inglese), pronuba la potenza dei sensi: “Your smell. It drives me crazy”, gli sussurra Joyce nel Tabernacolo, l’edificio che custodisce la Manna, il centro del centro del mondo. Ci si aggira in un universo narrativo extreme, contiguo non tanto al modernismo (lo zio burbero del postmoderno scafato e impertinente) quanto al concetto di origine, quella trepida prossimità con la natura poi ridotta nei termini del sintomo psicotico, che tuttavia – ha riassunto un esperto come Andrea Zanzotto – rimane “una zona perpetuamente scoperta in grado di dar adito a una sorta di difesa attiva, con l’accordarsi a una ‘bella d’erbe famiglia e d’animali’ di quasi, ormai, preistorica memoria”. Il sacro, la misura del ritmo immutabile di ciò che ritorna, è quanto mai alieno dal nostro ambiente profano, decentrato e precario. La tradizionale funzione degli “eterni” è stata di collocarci dentro un ordine, a partire dal quale esplorare il senso dell’esistenza; la realtà soggettiva e quella naturale si univano in un rapporto di reciproca dipendenza a cui si poteva giungere per via intuitiva. Furio Jesi aveva rilevato che l’indagine sul mito era “la scienza del girare in cerchio, sempre alla medesima distanza, intorno a un centro non accessibile”.
Se è così, il titolo del romanzo di Torino rilancia un all-in spericolato, cioè la trasformazione alchemica di una fattoria di primitivi faulkneriani nell’ombelico del mondo, un luogo dove il regno celeste e quello infero si danno appuntamento ed è inevitabile il contatto ustionante con gli dei superiori e ctonii. Il demonio ficcanaso si trova particolarmente a suo agio a Villa la Croce, nel disegno della corteccia degli alberi, nello stalletto dei maiali, nell’acqua del pozzo, tra le foglie rinate della quercia.
Un’etimologia di Damiano allude al frigio “Damia”, uno dei nomi di Cibele, la dea responsabile della follia del giovane Attis, che si evirò e morì all’ombra di un pino, in cui venne poi trasmutato da Cibele. Nell’ultima pagina del romanzo, Damiano, dopo aver perduto Joyce, estrema chance di rientro nella normalità, mentre vaga nel cerchio magico delle querce di Villa la Croce sente che “la forza che aveva dato la spinta alla sua vita adesso era alla fine, il suo corpo si sarebbe fermato lì. Con gli ultimi rimasugli di coscienza guardò la propria ombra, che non era più l’ombra di Damiano Bacciardi, ma quella di una quercia, giovane, vecchia, forte come l’albero che aveva sorretto suo padre”. Tra i temi del culto della Grande Madre frigia si colloca la rinascita rituale; in un’antica iscrizione mitraica si legge “In ae-ternum renatus”. Prima o poi Damiano ricomparirà.
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D. Bonora è dottore di ricerca in italianistica presso le Università di Padova e Venezia