L’irriverente demistificazione di un eroe nazionale
recensione di Giuseppe Marcocci
dal numero di dicembre 2016
Sanjay Subrahmanyam
VITA E LEGGENDA DI VASCO DA GAMA
ed orig. 1997, trad. dall’inglese di Maurizio Ginocchi, pp. 400, € 29
Carocci, Roma 2016
La biografia è uno strumento valido per smontare un’epopea nazionale? Sì, almeno stando al libro su Vasco da Gama di Sanjay Subrahmanyam che vede ora la luce per i tipi di Carocci, a quasi vent’anni di distanza dall’uscita dell’originale inglese (1997). Come si ricorda nella prefazione all’edizione italiana, «la storia variegata e complessa del fenomeno del nazionalismo comporta che i diversi paesi ricerchino i loro eroi o le loro eroine in momenti assai differenti del passato». Così, in Portogallo il pensiero corre subito ai celebrati protagonisti delle cosiddette scoperte geografiche (benché recenti sondaggi tra i portoghesi abbiano riconosciuto all’unanimità la palma di «più grande» connazionale al dittatore Salazar, confermando il duraturo effetto delle retoriche nazionalistiche novecentesche). In Italia, invece, il giudizio diffuso sul Rinascimento e sul Risorgimento come epoche gloriose del passato peninsulare fa preferire Leonardo da Vinci e Giuseppe Verdi, mentre Colombo, un genovese la cui origine è stata spesso messa in dubbio e che consentì alla corona di Castiglia di costruire grandi imperi coloniali nel nuovo mondo da lui scoperto, continua a trovare a fatica un posto nel pantheon degli eroi nazionali. Aver compiuto una grande impresa non sempre basta. Occorre anzitutto che sia interpretata come il segno del destino di un popolo, una pietra miliare nel cammino storico di una nazione o, nel caso italiano, come un episodio che si inserisca armoniosamente nel racconto, caro al patriottismo risorgimentale, di una terra afflitta dalla frammentazione politica e dalla violenza di eserciti stranieri, ma da secoli in cerca di riscatto.
Riconoscimento tardivo
Invano Guicciardini sottolineò che il viaggio di Colombo aveva una «connessità con le cose italiane», invitando a cantarne «la perizia, la industria, l’ardire, la vigilanza e le fatiche (…) con eterne laudi», in contrasto con le prime cronache spagnole, ancora influenzate dal ricordo dei contrasti fra i suoi eredi e la corona per la giurisdizione sui territori americani. Colombo e i fitti rapporti della penisola italiana con l’allargamento globale degli orizzonti geografici, politici e commerciali dell’età moderna hanno stentato a integrarsi in una storia nazionale poco disposta a concedere il suo marchio a fatti e processi che non si fossero verificati sul suolo patrio e, possibilmente, all’ombra di poteri autonomi, o comunque insofferenti all’egemonia delle grandi potenze europee del tempo. L’anacronistica retroproiezione di un’ottica nazionale sui secoli dell’età moderna – un problema ancora vivo, non solo in Italia – avrebbe poi indotto, in occasione del quarto centenario della scoperta dell’America (1892), a celebrare enfaticamente Colombo nell’Italia post-unitaria, anche per l’effetto di collante che il suo mito poteva avere sulle migliaia di migranti italiani che tornavano allora a solcare l’A-tlantico, stavolta in cerca di lavoro e un futuro dignitoso. A Genova fu allestita un’esposizione italo-americana, le Colombiadi, ma le statue di Colombo già esistenti, o erette a cavallo tra Otto e Novecento, in tante città europee ed americane dimostrano quanto quella rivendicazione del suo ruolo di esploratore italiano fosse tardiva.
Diverso è il caso di un personaggio il cui nome è indissolubilmente legato a quello che un detrattore del colonialismo europeo come l’abbé Raynal definì, nel Settecento, l’«avvenimento più interessante per la specie umana» insieme alla scoperta dell’America: il «passaggio verso le Indie per il Capo di Buona Speranza». Dopo aver completato il viaggio fino a Calicut (1497-1498) ed essere stato accolto come un trionfatore al ritorno a Lisbona, Vasco da Gama guidò un’altra spedizione nell’oceano Indiano (1502-1503) e fece ancora in tempo, pochi mesi prima di morire, ad assumere il titolo di viceré dell’India (1524), la massima carica politica nell’impero portoghese in Asia. Allora si era ormai da tempo imposto come figura di riferimento per una parte della litigiosa élite lusitana. Fu questa fazione a coltivarne la memoria, garantendogli non solo un trattamento speciale nelle cronache portoghesi, ma anche il ruolo di protagonista del grande poema epico I Lusiadi (1572) di Luís Vaz de Camões. Prendeva così forma la leggenda di Gama, che avrebbe agevolato il suo ingresso nel canone degli eroi nazionali nell’Ottocento, quando in Portogallo si guardava ai fasti del passato con una nostalgia destinata poi a rinvigorire la propaganda coloniale salazarista.
L’immagine di un intrepido scopritore dell’ignoto ormai associata a Gama andò a sedimentarsi nei pochi studi storici a lui dedicati, un altro elemento di differenza rispetto a Colombo, uno dei personaggi storici cui sono stati dedicati più libri. La sua fortuna editoriale non discende solo dall’eredità della conquista europea dell’America, che ne fa l’eroe che permise alle due componenti dell’Occidente di incontrarsi, ma anche dai suoi numerosi scritti, pubblici e privati. Di Gama, al contrario, non resta che qualche lettera di natura amministrativa, oltre naturalmente alla sua leggenda. Proprio da essa prende le mosse Subrahmanyam in uno studio che ha segnato una rottura non solo con la tradizione delle biografie di Gama, ma più in generale con un certo modo di raccontare la cosiddetta espansione europea, cui aveva già inferto un primo colpo con una storia dell’impero portoghese in Asia (1993), che riconosce uno spazio inedito a figure di marginali e fuggitivi e lascia spesso la parola alle fonti non europee.
Tracce del mito
Nel libro su Gama si inseguono le tracce del suo mito sparse dalla lirica ai ritratti, passando per i romanzi indiani novecenteschi. L’ironia e l’irriverenza con cui procede Subrahmanyam suscitarono virulente reazioni in Portogallo quando uscì l’edizione originale, nel bel mezzo delle celebrazioni per il quinto centenario del viaggio a Calicut. Basti leggere le dissacranti pagine iniziali in cui si ripercorrono gli sforzi tardo-ottocenteschi di trasferire le ossa di Gama da Vidigueira, il villaggio alentejano di cui era conte dal 1519, a Belém, presso Lisbona, coronati da successo nel 1880, salvo scoprire che, in realtà, furono traslate le spoglie di un bisnipote (all’errore si riparò, sembra, nel 1898). Quest’opera di demistificazione si accompagna, lungo i capitoli del libro, a un ritorno alle fonti d’archivio relative a Gama, il cui corpus si allarga però fino a includere molti documenti non portoghesi, compresa una cronaca araba. Prende così forma un personaggio storico diverso. Se ne ricostruisce attentamente la carriera, soffermandosi sulle strategie che, fra determinazione e colpi di fortuna, ma anche basse ambizioni e il ricorso ad astuzie diplomatiche e violenza esemplare, furono all’origine dell’ascesa di Gama da membro della principale famiglia di Sines, un piccolo centro costiero, e delle tante svolte inattese della sua vita. Nella ricostruzione dei contesti in cui Gama si mosse nell’oceano Indiano si avverte la formazione di Subrahmanyam come storico economico di questa vasta regione: le pagine sulla ricerca della rotta per l’India una volta superato il capo di Buona Speranza (coronata da successo grazie all’aiuto di un pilota del Gujarat), o sul panorama caleidoscopico dei mercanti che vi operavano, e continuarono a operarvi dopo l’arrivo dei portoghesi, sono una lezione per chiunque si occupi di storia delle relazioni fra gli europei e il mondo nei secoli dell’età moderna. Se ne ricava un ritratto a tutto tondo degli ambienti e del clima in cui si svolsero le esplorazioni tra Quattro e Cinquecento, che ha mutato a fondo il modo di studiare l’impero portoghese, sempre più analizzato nei suoi intrecci con altri poteri non europei.
In tal senso, il libro è anche un’applicazione implicita del metodo delle «storie connesse», che Subrahmanyam ha teorizzato in un articolo uscito sempre nel 1997. Dalla poliedricità delle prospettive ricostruite emerge infatti un’immagine molto più equilibrata dell’apertura della rotta marittima fra Europa e Asia del Sud, che non segnò affatto l’avvio di un’incontrastata dominazione europea, come si raccontava una volta. Vasco da Gama fornisce così un filo biografico, che permette al lettore di esplorare una molteplicità di livelli e contesti culturali abbandonandosi al piacere della narrazione. È un modello di storia transculturale che ha avuto un grande successo, come ci ricordano le traduzioni italiane dei volumi di Mercedes García-Arenal e Gerard Wiegers sull’ebreo marocchino Pallache (L’uomo dei tre mondi, Viella, 2013), di Natalie Zemon Davis su Leone Africano (La doppia vita di Leone l’Africano, Laterza, 2008) e di Linda Colley L’odissea di Elizabeth Marsh (Einaudi, 2010). Ora i lettori italiani possono andare direttamente alla fonte di questa storiografia, scoprendo l’avvincente parabola di un personaggio di cui conoscono sicuramente il nome, ma forse non la storia. Una storia a lungo sepolta da una retorica nazionalista con cui, a quanto pare, continueremo ad avere a che fare. Non solo come storici.
g.marcocci@unitus.it
G Marcocci insegna storia moderna all’Università di Viterbo