di Giulia Baselica
Federico Varese
La Russia in quattro criminali
pp. 137, € 12,
Einaudi, Torino 2022
Pierre Sautreuil
Le guerre perdute di Jurij Beljaev
ed. orig. 2018, trad. dal francese di Silvia Manzio e Silvia Mercurio,
pp. 247, € 19,50,
Einaudi, Torino 2022
Alla domanda “Come è possibile che la Russia sia passata dal caos politico ed economico degli anni Novanta (…) a una dittatura che ricorda moltissimo l’Unione Sovietica, avendo sostituito l’idea marxista-leninista con quella neoimperialista e nazionalista di Vladimir Putin?” il criminologo e accademico Federico Varese si propone di trovare una risposta ricostruendo le biografie di quattro criminali (Vjačeslav Ivan’kov, Boris Berezovskij, Sergej Savel’ev e Nikita Kuz’min) e ripercorrendo la storia contemporanea della Russia nel periodo compreso fra gli anni sessanta del Novecento e i primi anni venti del nuovo millennio. Ivan’kov, detto “il Giapponesino” per il taglio a mandorla dei suoi occhi, intorno alla metà degli anni settanta si mette a capo di una banda criminale protomafiosa, specializzata in una efficacissima e innovativa quanto redditizia strategia: offrire protezione ai ricchi speculatori, in caso di furto o di crediti non incassati. La sua carriera si intensifica soprattutto all’inizio degli anni Novanta, quando a Mosca scoppia la grande guerra di mafia: vi prendono parte bande di ceceni che taglieggiano i primi imprenditori dell’epoca post-sovietica e di azeri che mirano a impadronirsi del controllo del traffico di stupefacenti; vi partecipano criminali di svariata natura e provenienza che ambiscono al controllo di banche, hotel e night club; vi si aggiungono pugili disoccupati ed ex combattenti reduci dell’Afghanistan. Ivan’kov, insieme ai suoi adepti, contribuisce alla costituzione della Fratellanza del sole, il più importante gruppo criminale euroasiatico, con ricavi pari a 8,5 miliardi di dollari l’anno. Nel 1995 sbarca a New York, dove avvia le sue consuete attività illegali e si stabilisce in un lussuoso appartamento nella Trump Tower. Viene arrestato, ma non sconta la pena per intero, mentre un successivo processo celebrato a Mosca, reso possibile dalla sua estradizione, si conclude con l’assoluzione. Sarà un cecchino a porre fine alla sua vita, nel 2009, nella capitale russa. Più sorprendente il percorso esistenziale dell’oligarca Boris Berezovskij. Autore di numerosi contributi scientifici nel campo della matematica applicata, inizia la sua carriera collaborando con il governo e realizzando progetti per la risoluzione di problemi di gestione del sistema di produzione dell’impianto autonomo di Togliatti, l’avtoVAZ Berezovskij e il presidente El’cin condividono la stessa ambizione: la privatizzazione delle aziende e, a partire dal 1996, in tempi rapidissimi, viene realizzato l’obiettivo per l’intero sistema industriale. L’oligarca assume il controllo della tv di stato, della compagnia petrolifera Sibneft e di Aeroflot. Ma se nel 1996 si è adoperato per sostenere e assicurare la rielezione di El’cin, pochi anni dopo svolgerà un ruolo essenziale nel successo elettorale di Vladimir Putin, il quale provvederà immediatamente a svincolarsi dalla protezione degli oligarchi della cerchia del suo predecessore. Berezovskij si vedrà quindi costretto a lasciare la Russia e a rifugiarsi in Inghilterra, dove morirà suicida nel 2009.
La terza vicenda narrata, quella di Sergej Savel’ev, rifugiato politico in Francia dal 2021, fa emergere un drammatico aspetto del rapporto fra mafia e istituzioni: le sistematiche vessazioni subite dai detenuti nelle carceri russe sono un portato della repressione attuata dal regime su scala più ampia nell’ambito della vita civile. Svolgendo un incarico presso la direzione dell’ospedale del carcere di Saratov, Savel’ev entra in possesso di più di un migliaio di video, prove documentali delle torture inflitte dai funzionari dell’amministrazione penitenziaria. Nel febbraio del 2021 comincia a inviarli a un’associazione non governativa russa con sede a Biarritz. I video trasmessi compaiono sul canale YouTube dell’associazione e, di lì a poco, quattrocento carcerati denunciano abusi sessuali, torture ed estorsioni nelle carceri di Krasnojarsk e Irkutsk. I fatti di cui si rende protagonista il criminale informatico Nikita Kuz’min sono, infine, osserva Varese, espressione della vulnerabilità della Russia di Putin: il regime è costretto a scendere a patti con la criminalità informatica russa, che ha raggiunto un livello di efficienza e raffinatezza senza eguali. Kuz’min, oggi convertito ad altre aspirazioni esistenziali, è l’ideatore di Goy – potentissimo virus attivo dal 2005 e responsabile della scomparsa di milioni di dollari dai conti correnti di aziende e di privati cittadini statunitensi ed europei – e un autentico professionista del cybercrime, inteso come servizio fornito da specialisti in possesso, ognuno, di specifiche competenze. Interessante, in conclusione, l’ipotesi interpretativa che Federico Varese propone per comprendere le ragioni dell’invasione dell’Ucraina: “Una scelta che ha una cruciale dimensione di politica interna. La guerra all’estero permette di aumentare la pressione dentro il Paese. Se l’Ucraina offrisse ai russi un modello di democrazia occidentale, il regime sarebbe in grave pericolo”.
I complessi rapporti fra Ucraina e Russia e l’intricata struttura reticolare dei rispettivi equilibri di potere sono al centro dello sconcertante, densissimo reportage di Pierre Sautreuil. In I reporter di guerra. Storia di un giornalismo difficile da Hemingway a Internet (Dalai 2009) Mimmo Càndito precisava: “Il reporter che va in guerra non è mai un eroe: è soltanto un uomo che ha paura, e che odia la guerra ma trae forza dalla consapevolezza del ruolo che sta interpretando”. Il giovane giornalista indipendente Pierre Sautreuil, insignito nel 2015 del prestigioso premio Bayeux-Calvados per corrispondenti di guerra, sostanzia queste parole accettando l’incarico di “coprire le elezioni della Repubblica popolare di Lugansk” e assegnandosi il compito di delineare i profili identitari e i percorsi compiuti dai “signori della guerra”, uomini che, dotati di un adeguato equipaggiamento bellico, nei periodi di disordine politico e sociale assumono il potere assoluto su decine di migliaia di persone.
La riedizione del reportage Les guerres perdues de Youri Beliaev, originariamente pubblicato nel 2018, spiega l’autore, permette di cogliere la tragica continuità tra il conflitto nel Donbass, apparentemente conclusosi con gli accordi di Minsk del febbraio del 2015, e l’invasione russa del 2022. L’elemento di connessione tra le due fasi può essere identificato nella emblematica figura di Jurij Beljaev, ex poliziotto sovietico, mafioso, combattente in Bosnia, latitante e leader di un partito ultranazionalista, infine separatista nel Donbass. Tra l’autunno del 2014 e la primavera del 2015, spostandosi tra Lugansk, Pereval’sk e San Pietroburgo, Beljaev concede a Sautreuil alcune interviste perché “la gente deve sapere quello che è successo”. Gli incontri tra il giornalista e il fuggitivo avvengono in luoghi segreti e in un contesto dominato dalla tragica certezza del pericolo: i momenti di tregua sono infatti continuamente e proditoriamente violati e Sautreuil, in uno di quei momenti, si ritrova sotto il fuoco diretto di una mitragliatrice: “Tento di strisciare ma i miei muscoli non vogliono saperne di rispondere. Il giubbotto antiproiettile mi inchioda a terra. Sento un dolore che mi si irradia dall’orecchio alla metà sinistra della testa, e mi tocco la faccia per controllare che ci sia ancora”.
Anticomunista convinto e orgoglioso della propria identità di russo e di cittadino sovietico, Beljaev non si rassegnò all’idea di veder scomparire l’“impero”. Nei primi anni novanta le sue imprese si susseguirono a un ritmo vorticoso: tentò, invano, di estromettere El’cin dal potere e, addirittura, di eliminarlo; avviò una serie di transazioni finanziarie mediante la Rubicon Security, in apparenza una società specializzata in servizi di sicurezza privata, in realtà un’associazione mafiosa che praticava l’estorsione, assicurando agli imprenditori la protezione da gruppi criminali concorrenti; coordinò un lucroso traffico di combattenti volontari in Bosnia durante la guerra nell’ex Jugoslavia. Beljaev parla anche di sé, dei propri affetti, della sua disperazione e senso di impotenza dinanzi alla morte del figlio per polmonite; rammenta gli anni dell’infanzia, ricorda le figure dei genitori e della nonna, alla quale deve la propria educazione politica: Sautreuil, dopo l’ultima, tesissima intervista è colto da un’intuizione: “Forse quelle decine di ore di registrazione non erano tanto un testamento quanto una confessione”. E forse l’interpretazione più plausibile, benché criptica, della vicenda esistenziale di Beljaev è suggerita dalle parole dell’amico Vasilij: la libertà con la quale il criminale dal poliedrico ingegno parrebbe aver agito è del tutto illusoria, la società russa non concede opzioni, mentre Jurij Beljaev, titanico eroe ribelle, è condannato, nonostante le periodiche, durissime sconfitte, a tornare all’attacco e a difendersi con i propri mezzi.
Pierre Sautreuil lascia la Russia il 9 maggio 2015, giorno in cui si commemora il settantesimo anniversario della vittoria sovietica nella Grande guerra patriottica. Le solenni parate trasmesse dai grandi schermi dell’aeroporto pietroburghese gli suggeriscono un’osservazione illuminante, una possibile chiave di lettura della relazione fra potere e popolo, codificata in un copione che inesorabilmente replica sé stesso: “Questa processione non è una marcia della pace (…). In fondo la pace ha poca importanza, questa è una marcia dell’unità nel sacrificio in una sofferenza glorificata e accettata e un’ingiunzione a sopportare sempre di più”.
giulia.baselica@unito.it
G. Baselica insegna lingua e letteratura russa all’Università di Torino