Il patrimonio urbano racconta
di Dario Internullo
Hendrik Dey
Roma nel Medioevo
Un nuovo profilo della città, 400-1420
ed. orig 2021, a cura di Serena Romano,
pp. 448, € 48, Viella, Roma 2023
Oggi i concetti di fonte e scrittura non sono più totalmente sovrapponibili e anzi, quasi non c’è studioso che, pur formatosi sulle fonti scritte, non senta l’obbligo di capire se il suo tema possa trarre beneficio da oggetti non scritti, per esempio un affresco, un’anfora, uno scheletro, persino un mattone. È esattamente questa la prospettiva adottata da Hendrik Dey nel suo libro. Il titolo racchiude in sé l’intero programma di ricerca dell’autore: aggiornare, dunque completare e superare, un volume entrato a buon diritto fra i classici della storia di Roma medievale: Rome. Profile of a City, 312-1308, pubblicato da Richard Krautheimer nel 1980 e tradotto in italiano l’anno seguente per Edizioni dell’Elefante.
Storico dell’arte e dell’architettura, Krautheimer aveva costruito il suo Profile intorno alle evidenze visuali e architettoniche delle numerosissime chiese di Roma, che ancora oggi costituiscono il più visibile lascito del medioevo alla città. Storico e archeologo, Dey elabora invece il suo New Profile integrando le conoscenze accumulate intorno alle chiese e alle fonti scritte con i dati emersi negli ultimi quarant’anni dagli scavi urbani della città; ed estende l’analisi anche al secolo XIV, che Krautheimer non aveva preso in considerazione.
Il libro è organizzato attorno a sette capitoli, disposti in ordine cronologico sulla base di una periodizzazione politica: dopo una Roma ancora antica attorno all’anno 400 troviamo quella sotto attacco e provincializzata (401 e 552), poi una bizantina (552 e 705), una papale (705 e 882), una in preda agli aristocratici (882 e 1046), una riformata dal papato e poi afferrata dal comune laico (1046-1236), una di nuovo in preda agli aristocratici e poi in crisi (1230-1420), infine una nuova, più grande Roma papale, cui si fa cenno nell’epilogo del libro. Ciascun capitolo è costruito alternando sezioni narrative, che raccontano i grandi cambiamenti macropolitici, a sezioni descrittive, che costituiscono invece delle vere e proprie passeggiate intorno alle vestigia materiali del medioevo romano, per ricomporre quello che l’autore chiama cityscape: il paesaggio risultante dall’interazione tra agente umano e oggetti inanimati. Il risultato è una nuova storia della città che adopera come fonte, dunque interroga e fa parlare, il suo patrimonio culturale. Il punto chiave per comprendere questa storia è la demografia: quando tra V e VI secolo la popolazione dell’Urbe passò da tante centinaia di migliaia a poche decine di migliaia, gli abitanti si trovarono a interagire con un patrimonio materiale enorme, che sconfinava di parecchio dalle loro esigenze precipue. Cosa farci? Distruggerlo? Reimpiegarlo? Restaurarlo? Se le scelte furono diverse a seconda dei secoli e dei contesti, costante rimase invece il rapporto quotidiano tra i romani e quel loro patrimonio antico. Si potrebbe quasi affermare che la vera essenza della storia di Roma nel Medioevo risieda nella relazione tra i suoi abitanti e l’ingombrante eredità materiale del passato. Quell’eredità era anzitutto una risorsa: gli acquedotti fornirono ancora a lungo acqua a tanti settori della città; le Mura aureliane, percepite e adoperate come mura cittadine per tutto il medioevo, furono sempre un barometro politico, nel senso che il loro restauro rendeva manifesto pubblicamente il potere di chi governava; i monumenti antichi potevano essere smontati e rimontati per essere adoperati altrove, in forme nuove e con risparmio economico; potevano essere trasformati in calce da costruzione, ma sempre attraverso processi ben regolati e nella consapevolezza che l’essenza “antica” sarebbe confluita nel nuovo edificio; potevano scandire processioni e liturgie collettive; ci si poteva persino abitare dentro, e gli aristocratici lo facevano tanto nell’alto quanto nel basso medioevo. A volte però quel patrimonio poteva anche costituire un limite: come ben rimarca l’autore, la frammentarietà e la mancanza di compattezza del paesaggio urbano rendevano la città difficilmente imbrigliabile da parte dei governi che vi si avvicendarono, con il rischio di “privatizzazioni” di zone più o meno ampie sempre dietro l’angolo.
Insomma, sono tante le novità del New Profile. Fra queste, alcune hanno il merito di sfatare delle opinioni comuni ancora diffuse e di cui Krautheimer stesso era stato uno degli araldi principali. Per fare un esempio, non è più accettabile l’idea che già tra IV e V secolo il paesaggio urbano fosse dominato dalle chiese: Roma non rinunciò volentieri al suo paesaggio di tradizione antica, facendo brillare la sua spettacolare Show Area – come Dey definisce i Fori – e i suoi templi pagani ancora a lungo. Un altro: anche se si continua a ripetere che già agli inizi del medioevo gli abitanti della città si erano concentrati attorno all’ansa del Tevere, i ritrovamenti di ceramiche, che l’autore tratta come evidenze di insediamenti umani, mostrano piuttosto un insediamento ancora sparso, a macchie di leopardo, fino grossomodo al XII secolo. L’unica parte in cui il volume non sembra aver recepito del tutto la storiografia recente riguarda il Trecento, il secolo non coperto da Krautheimer. Riflettendo sull’assenza di grandi committenze artistiche ecclesiastiche, l’autore considera quel secolo come un periodo di stasi, per non dire crisi, della vitalità del paesaggio urbano, scatenato dall’“esilio babilonese” dei pontefici. Eppure studi recenti hanno mostrato che, nonostante la demografia e l’economia attraversassero alcune fasi di recessione a Roma come nel resto d’Europa, sulla scena urbana si mossero attori politici importanti e in grado di stimolare anche committenze artistiche, intellettuali e più latamente materiali in città: prima di Cola di Rienzo, di cui l’autore ricorda la committenza della grande scalinata del Campidoglio ma non le grandi tavole dipinte su cui si giocò la sua propaganda politica, forte era stata in città l’influenza di Roberto d’Angiò, il re francese di Napoli che ebbe anche un ruolo nel mantenimento dell’università cittadina, lo Studium Urbis, fondato da Bonifacio VIII e di cui ancora sfugge l’esatta collocazione originaria nel rione Trastevere. Il fatto che queste pratiche abbiano lasciato perlopiù evidenza di sé nelle fonti scritte, che siano dunque perlopiù “storie di scrittura”, rende senz’altro scusabili queste lacune all’interno del libro; semmai suggerisce degli spazi sui quali le sintesi future potranno riflettere con entusiasmo.
dario.internullo@uniroma3.it
D. Internullo insegna storia medievale all’Università di Roma Tre