Un salto nel vuoto che cambiò l’Italia
di Emilia Di Rocco
dal numero di aprile 2015
Nell’anno in cui si commemora il centenario dell’ingresso dell’Italia nella Grande guerra i tre volumi di Marco Mondini, Nicola Maranesi e Giancarlo Alfano gettano uno sguardo acuto e profondo su quel “salto nel vuoto” che ha determinato un vero e proprio spartiacque nella nostra storia di italiani e europei, su quell’esperienza lacerante i cui effetti destabilizzanti si sono riverberati in tutti i settori della vita sociale: economia, politica e storia culturale, letteratura e arti visive.
Il libro di Marco Mondini traccia un percorso che tocca i capitoli principali della narrazione della guerra, spesso raccontata come grande avventura epica ed eroica dai tratti premoderni. Dalla “crisi al rallentatore”, la logorante attesa che sarebbe sfociata nei fatti del maggio del 1915, alla lenta e tormentata uscita dalla guerra emergono una pedagogia patriottica e un’iconografia della guerra che sottolineano l’unicità del conflitto italiano rispetto ad altri paesi europei. Romanzi profetici sembrano annunciare la guerra imminente, la stampa propone un nuovo modello di linguaggio giornalistico, mentre con i fatti della Libia il racconto della guerra, ispirato ai romanzi d’avventura di Salgari e all’iconografia pittorica del Risorgimento, diventa un affare mediatico e i periodici illustrati narrano un conflitto epico e anacronistico secondo le regole del sensazionale e del meraviglioso. Nella produzione artistica sul primo conflitto mondiale, che raramente restituisce la realtà, spicca l’epopea degli alpini: dalla letteratura per adulti, nella quale dà vita a un vero e proprio genere, a quella per l’infanzia, alle arti visive e al cinema dove è il soggetto privilegiato di alcune produzioni cinematografiche di successo nelle quali il combattimento e la morte brillano per la loro assenza.
Il guerriero e la vittima
Due fotografie, quella della vittima inerme e quella del guerriero trionfante, restituiscono un quadro della graduale riconquista della normalità per i civili e l’inizio di una lenta e a volte tormentata uscita dalla guerra per i militari all’indomani del 4 novembre. Dopo l’euforia seguita a Vittorio Veneto, quando il conflitto torna a essere una bella avventura con la riconquista dei paesi occupati, bisogna far fronte sia alla delusione del veterano cui viene negata la marcia trionfale della liberazione, sia al problema dei prigionieri e dei dispersi, nonché all’incapacità di eliminare la morte dalla vita. La politica monumentale del dopoguerra, le cerimonie del milite ignoto e la fioritura di opuscoli commemorativi destinati alla circolazione privata testimoniano le diverse stagioni della memoria collettiva e i relativi punti di svolta, come suggeriscono, ad esempio, il caso del monumento al fante, oppure quelli del Monte Grappa e di Redipuglia.
Una tessera importante nel mosaico del discorso sulla Grande guerra è costituita dalla letteratura, sia quella alta, sia gli epistolari, gli appunti e i diari dei militari al fronte che a lungo non hanno svolto alcun ruolo nella costruzione dell’immagine e della memoria di quella che è stata definita una “guerra letteraria”. Sono queste le voci che rivivono nel volume di Nicola Maranesi il quale, avvalendosi del prezioso materiale dell’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano, restituisce al lettore un campione delle emozioni racchiuse nelle scritture autobiografiche nazionali. È il diario di guerra delle classi subalterne nel quale risuona il sentimento della vita e la scoperta di un mondo nuovo. Il lettore è condotto lungo un viaggio nell’universo della guerra di trincea che si snoda attraverso dieci tappe fondamentali in compagnia di alcuni preziosi testimoni che rivelano la presa di coscienza della realtà del fronte, l’inquietudine, lo smarrimento, lo sconforto, l’agitazione, la paura, la rassegnazione fino all’annichilimento per giungere alla affermazione della volontà di vivere. Gli scritti dei soldati al fronte, rappresentativi della realtà geografica italiana nonché di tutte le estrazioni sociali e di tutti i gradi militari, oltre ad aiutare a spiegare il perché della partenza e della decisione di andare a morire al fronte, forniscono materiale prezioso per tentare di rispondere agli interrogativi della vita attuale. È questo aspetto a suscitare la curiosità delle giovani generazioni di oggi per un “diario di guerra” insolito e quasi sconosciuto che Maranesi ricostruisce con grande passione.
Il percorso emotivo descritto nel volume si svolge tra il salto nel vuoto che il soldato compie scendendo dalla tradotta e il balzo fuori dalla trincea, all’assalto di un nemico spesso invisibile, per arrivare al tentativo di restituire una dimensione umana alla quotidianità della guerra, dando sfogo al desiderio di tornare a vivere che spesso si traduce in una sfida diretta alla morte. Punto di svolta di questo itinerario, come ad esempio testimoniano Emanuele Di Stefano e Giuseppe Cordano, è l’avvicinamento alla zona della prima linea, che spesso coincide con un cambiamento dello stato d’animo del militare. Il dialogo e la contaminazione tra le testimonianze scelte restituisce solo in minima parte il racconto corale di ciò che i combattenti hanno visto e vissuto nella loro discesa agli inferi all’interno della quale alcuni di loro hanno trovato il modo di sottomettere la paura della morte e le ragioni per riaffermare la loro volontà di vita.
Il ritorno a casa non sempre è stato agevole, anzi spesso è stato un processo complesso e doloroso. A “ciò che ritorna” Giancarlo Alfano dedica un’interessante e profonda riflessione che si concentra sulla figura del reduce, sul ricordo della paura, dell’orrore e delle privazioni che il soldato, all’indomani dei due conflitti mondiali, porta a casa insieme a un senso di corresponsabilità. Un ritorno minaccioso, come spiega Giorgio Bassani in Una lapide in via Mazzini, oppure come suggerisce l’interrogativo del protagonista di Quelli che hanno fatto la guerra di Ernesto Formigari: “Ora che fare: da dove ricominciare?”. Questa inquietante domanda, il leitmotiv delle tante storie di ritorno che proliferano nella letteratura dei due dopoguerra, implica necessariamente anche un discorso sull’identità che il reduce tenta di ritrovare all’interno della continuità tra guerra e fascismo, rimpossessandosi della propria stagione eroica e del proprio passato di pericolo e gloria. È questo ciò che emerge nell’Ultima marcia di Formigari, la cui opera presenta in toni drammatici il problema del rientro a casa.
Il ritorno impossibile
Il percorso tracciato nel volume ripercorre alcuni degli snodi più importanti della letteratura italiana moderna e contemporanea. Gli scritti di Carlo Emilio Gadda rappresentano uno dei punti privilegiati da cui iniziare a riflettere sulle difficoltà che il reduce deve affrontare all’indomani del conflitto. Il difficile e tormentato percorso del ritorno si svolge tra il dolore e l’amore per il fratello caduto in guerra, cui il giovane Gadda dà voce nel Giornale di guerra e di prigionia, e l’Impossibilità del diario di guerra dove a distanza di dieci anni l’autore esprime la sofferenza del ricordo dei compagni perduti espressamente legata al ritorno. Punto di arrivo di questo doloroso processo di ripensamento, riscrittura, racconto della colpa e dell’inutilità del ritorno, all’interno del quale alla positività dell’esperienza della guerra in quanto potenziamento della vita si affianca l’angoscia che fa riaffiorare alla memoria il volto degli amici perduti, è il riconoscimento del dolore della scrittura che rende il diario impossibile.
Il ritorno è il punto prospettico da cui affrontare il tema della rappresentabilità della guerra oppure la sovrapposizione dei tempi e la contaminazione degli spazi, risultato del prolungamento del conflitto nel dopoguerra. La pallottola della Grande guerra ritrovata dal narratore di Piccoli maestri di Luigi Meneghello è simbolo di quella continuità tra i due conflitti mondiali che determina una estensione del periodo di guerra e una confusione di tempi, un gioco di trasparenze tra le due guerre che è tipico della storia italiana. L’analisi di “ciò che ritorna” evidenzia alcuni temi ricorrenti nella letteratura del dopoguerra, come ad esempio la frattura tra le generazioni che emerge nel romanzo di Meneghello così come nel Ragazzo morto e le comete di Goffredo Parise, oppure ancora nella Storia di Elsa Morante e nelle opere di Mario Rigoni Stern. È il divario generazionale che emerge nel rapporto tra Dino e Corrado, protagonisti di La casa in collina di Cesare Pavese. Qui il protagonista-narratore scopre l’impossibilità di cancellare la guerra, di non potersi sottrarre all’azione perché il sopravvissuto ha il compito di trovare il perché, deve rendere conto ai caduti di quanto accaduto. Il discorso su “ciò che ritorna” si arricchisce ulteriormente con la dialettica tra centro e periferia in Pier Paolo Pasolini e Carlo Emilio Gadda, oppure con la riflessione sulla natura traumatica dell’alba e sulla figura di Enea come simbolo della frattura cronologica di un tempo ormai diviso nell’opera di Giorgio Caproni. Allo stesso tempo l’uso del paesaggio come forma di allegoria nella poesia di Giuseppe Ungaretti e in quella di Andrea Zanzotto, o ancora i ritorni di Vittorio Sereni, la cui poesia testimonia la presenza del trauma nel presente e, infine, il topos tematico del tram nell’opera di Giovanni Raboni, dove il mezzo di trasporto assurge a figura del trascorrere del tempo all’interno di un dispositivo allegorico in cui si fondono memoria personale e storia della città, rappresentano solo alcuni degli sguardi attenti e acuti che la letteratura rivolge all’esperienza delle due guerre adottando il punto di vista del reduce, senza fornire tuttavia una rappresentazione frontale, bensì di taglio, della storia, proiettando su di essa una luce intermittente.
emilia.dirocco@uniroma1.it
E Di Rocco insegna letterature comparate all’Università La Sapienza di Roma