L’attualità sconcertante di un prete “tridentino”
di Giorgio Giovannetti
Le ricorrenze sono pericolose: spesso si risolvono in monumenti, in operazioni nostalgiche o, peggio ancora, in insostenibili attualizzazioni.
È improbabile che corra questo rischio il cinquantesimo anniversario della morte di don Lorenzo Milani, come emerge dagli articoli contenuti nel nostro Libro del Mese (Tutte le opere, il Meridiano Mondadori a lui dedicato). Lettera a una professoressa, per citare il “suo” scritto più noto, è di un’attualità sconcertante, nonostante appartenga per molti aspetti a un’epoca irrimediabilmente passata. In fondo è un libro dove si parla della condizione scolastica dei bambini provenienti da un contesto sociale, il mondo contadino appena toccato dalla modernizzazione, che oggi non esiste più. Per non parlare dell’insegnamento, che è descritto nei termini di una “missione” molto lontana dall’immagine del “professionista riflessivo” prevalente nei più recenti trattati di pedagogia.
Eppure, tutto ciò non cancella di una virgola l’attualità di don Milani. Come osserva Roberto Biorcio, essa è legata innanzi tutto al tema della disuguaglianza sociale e delle sue ricadute sulla scuola. È questo il principale motivo per cui don Milani, un prete cattolico dalla religiosità quasi “tridentina”, come osserva Vanessa Roghi, potesse diventare un punto di riferimento degli studenti rivoluzionari del Sessantotto: sia l’uno che gli altri erano interessati ad approfondire e a contestare le disuguaglianze anche nei luoghi dove erano meno evidenti, come la scuola. La grande scoperta di don Milani era che molte pratiche scolastiche – come il voto, la promozione e la bocciatura – benché apparentemente mere tecniche di rilevazione del livello di preparazione degli alunni, in realtà non erano affatto neutrali, ma erano il prodotto di un contesto sociale le cui gerarchie contribuivano a riprodurre. Negli stessi anni anche molti sociologi, come Pierre Bourdieu, Marcello Dei e Marzio Barbagli, stavano sviluppando ricerche che pervenivano a conclusioni simili. La differenza era che don Milani ci era arrivato in modo autonomo e, soprattutto, che il suo libro era un’opera volutamente non accademica che ebbe quindi una risonanza senza precedenti.
Carlo Barone ci ricorda che la situazione nelle scuole italiane per molti aspetti è profondamente cambiata: nelle scuole elementari e medie non avviene più la selezione denunciata da don Milani e dai suoi ragazzi della scuola di Barbiana. Inoltre la grande maggioranza degli studenti ormai prosegue gli studi nelle scuole secondarie di secondo grado. Ciò non toglie, però, che la scuola sia ancora fortemente condizionata dalle disuguaglianze sociali. Per esempio nella scelta degli indirizzi delle scuole superiori: i licei, soprattutto classico e scientifico, rimangono scuole d’élite per le élite, mentre negli istituti tecnici e professionali si concentrano i giovani della classi più disagiate e gli stranieri. O, ancora, nel livello delle competenze acquisite e nella possibilità di proseguire con successo gli studi dopo le superiori.
Lettera a una professoressa non era però solo una denuncia, ma anche una proposta di un nuovo modo di fare scuola. Il bravo maestro tratteggiato da don Milani e dai suoi alunni avrebbe dovuto essere consapevole delle implicazioni sociali delle sue scelte didattiche e agire di conseguenza: con il tempo pieno e con quella che oggi chiameremmo “didattica individualizzata e motivante” avrebbe dovuto dare la possibilità anche ai Gianni di conseguire i risultati dei Pierini. In questo senso, come sottolinea Sergio Tramma, la proposta di don Milani era ed è divisiva. Per questo motivo commemorare don Milani in modo monumentale ed ecumenico è impossibile, a meno di falsificarne totalmente il pensiero. Molte delle parole d’ordine sulla scuola che vanno ancora per la maggiore, come quelle che esaltano la scuola “selettiva” e “meritocratica”, sono incompatibili con le sue idee.
Gli alfieri dell’anitimilanismo come Paola Mastrocola, di cui Vanessa Roghi cita un recente intervento sull’argomento, mostrano quanto sia attuale la polemica di don Milani. Mastrocola appartiene al novero di coloro che lodano la scuola passata e deprecano la decadenza di quella attuale, sapendo in verità poco dell’una e dell’altra, con buona pace del loro ritornello sull’ignoranza dominante. In ciò fraintendono don Milani su molti punti, ma non su uno dei più importanti: la denuncia del classismo della scuola italiana. Per esempio Mastrocola scrive che da Lettera a una professoressa trasuda “odio di classe, risentimento, ovvero il rancore dei poveri verso i ricchi”. Dove invece si sbagliano di grosso è quando sostengono che don Milani era favorevole a una scuola poco seria e rigorosa, soprattutto per quel che concerne l’apprendimento della lingua italiana. Vincenzo Viola, nella sua recensione dell’epistolario di don Milani, ci mostra quanto siano assolutamente fuori strada: il priore di Barbiana aveva un vero e proprio culto della lingua e della necessità di adottare nella scrittura un approccio rigoroso, che avesse cura di ogni singola parola. Ciò valeva per i suoi scritti, ma anche e soprattutto per il suo lavoro didattico: nella scuola di Barbiana la stesura collettiva dei testi era una delle attività più importanti e curate.
Quindi altro che “donmlianismo” lassista: al centro del pensiero pedagogico di don Milani vi era l’idea che la piena e solida padronanza della lingua e della cultura avrebbe dato alle classi popolari gli strumenti per emanciparsi veramente. Ma forse il problema, oggi come allora, è proprio la parola “emancipazione”.