Il manuale non può più essere un porto sicuro
di Fabio Fiore
Le pile ordinate di libri sopra i tavoli dell’aula insegnanti annunciano che è tempo di adozioni. A breve, una circolare diramerà la convocazione dei dipartimenti ricordando le procedure di rito. E gruppi di docenti, divisi in aree disciplinari, si riuniranno per trascrivere – classe per classe, materia per materia – i dati dei libri di testo in adozione per l’anno successivo: nomi autori, titoli, numero volumi, anno, case editrici, prezzi, codici meccanografici ecc.
La preoccupazione principale dei dipartimenti non è entrare nel merito – didattico e scientifico –. di adozioni vecchie e nuove, ma disporre di tutti gli elementi formalmente richiesti: basta un dato non aggiornato per rallentare il lavoro di trascrizione dei colleghi e/o lasciare la seduta con il timore di un possibile richiamo della segreteria, quando si tratterà di comunicare alle famiglie l’elenco ufficiale dei libri di testo. E ancora: il docente è tenuto a adottare solo sulle classi in cui al momento insegna, senza sapere – data l’attuale frammentarietà delle cattedre – né se manterrà la classe per cui sta ora adottando né quali saranno le sue classi future, insomma: “alla cieca”. Per di più, negli istituti come il mio – insegno storia e filosofia in un liceo classico-scientifico tradizionale – la tendenza è di scoraggiare adozioni troppo diversificate, per evitare abusi della facoltà di scelta, per semplificare la vita alla segreteria e alle famiglie.
Di fronte a ciò, non sorprende che molti docenti tendano a riconfermare lo stesso testo per anni, al massimo aggiornando l’edizione. Del resto, nella grande maggioranza dei casi, il manuale non è che un “porto sicuro”, un’ancora rispetto all’organizzazione della lezione, un supporto che spesso si continua a utilizzare in modo meccanico, leggendolo in classe o, magari, parafrasandolo.
Sull’offerta manualistica attuale ci sarebbe molto da dire. Per filosofia, il manuale di gran lunga più adottato è l’Abbagnano-Fornero e pazienza se sul piano storiografico e nell’impostazione generale è praticamente lo stesso su cui mi sono formato in gioventù! Per storia, l’offerta è al contrario vastissima. Ogni anno escono nuove edizioni con apparati che aumentano il volume delle pagine senza intaccare un impianto di fondo per lo più nozionistico. Gli attuali manuali hanno ampliato la parte laboratoriale e delle fonti, mantenendo però la storia-racconto cronologica e ipertrofica dal punto di vista delle informazioni, quasi mai scritta pensando ai suoi destinatari. Salvo rare eccezioni (è il caso del manuale di A. Brusa purtroppo limitato al biennio), le due parti di rado hanno una relazione precisa. Come scrive Enrica Bricchetto “di fatto tutti inseguono quello che il docente tradizionale vuole trovare per essere tranquillo a scapito di una scelta didattica forte e innovativa” (Fare storia con gli EAS. A lezione di Mediterraneo, Brescia, Morcelliana – Els, 2016).
Sviluppo del sapere e rivoluzione digitale: l’inadeguatezza della forma-manuale
In realtà, il manuale non può più essere un porto sicuro per almeno due ordini di ragioni. Il primo: vi è stato un tempo in cui il manuale era un compromesso accettabile tra sapere esperto e mediazione didattica, garantendo al docente un livello minimo di aggiornamento. Oggi, lo sviluppo ipertrofico di un sapere in continua espansione, sempre più specialistico e sempre meno interessato al pubblico della scuola, non può più essere “stoccato” in un libro di testo. Per tenere il passo della ricerca, il docente è oggi costretto ad arrancare, a reinventare su basi nuove e giocoforza incerte il suo aggiornamento.
Il secondo: la rivoluzione digitale pone la scuola di fronte a nuovi bisogni formativi: acquisire le competenze necessarie alla ricerca e alla valutazione delle informazioni e delle conoscenze fornite da internet; il bisogno di formati comunicativi e di forme di trasposizione didattica isomorfi con i nuovi alfabeti digitali; il bisogno di sottrarre questioni disciplinari importanti a un flusso mediatico appiattito sul presente. Anche per questo, il manuale non può più rappresentare per gli studenti la fonte esclusiva di informazioni e lo strumento privilegiato dei loro apprendimenti.
In conclusione, la forma-manuale pare irreversibilmente in crisi di fronte allo sviluppo del sapere e alla digitalizzazione integrale della cultura. Andrebbe quantomeno ripensata da cima a fondo. Nel frattempo, non posso dare torto a chi invita docenti a «non adottare il manuale» e accettare la sfida di costruire insieme agli studenti i materiali su cui fare lezione. Già molte scuole procedono in tale direzione. Come spesso accade nel nostro paese, se il dibattito mediatico si attarda sui problemi di ortografia degli studenti italiani, sono le minoranze operose e resilienti a mantenere viva la scuola e a tentare di immaginarne un futuro.
F Fiore è insegnante di storia e filosofia