La lezione di don Milani oltre il Novecento

Una sfida educativa che ci interroga

di Marco Rossi Doria

Quando leggo chi scrive su don Milani, odo le parole di padre Ernesto Balducci dette nel 1987 a Vicchio: “Vorrei cominciare in modo brusco dicendo che il mondo di don Milani è un mondo finito” perché “visse nell’ultima frangia della cultura contadina a contatto diretto con la cultura industriale trionfante”.

Ѐ tanto tempo che siamo impegnati nelle sfide volte ad assicurare solide conoscenze anche nei troppi luoghi marcati dall’esclusione sociale e culturale operando entro un paesaggio mutato radicalmente. Sono mutati agricoltura, industria, città, zone interne, servizi, informazione, politica, chiesa, cultura. Le famiglie hanno assunto pluralità di forme. Il tessuto antropologico non conosce quasi più l’educazione comunitaria e il gioco spontaneo. Si sono molto indeboliti – nella società, nel linguaggio, nei genitori, nella scuola – il principio d’autorità e il presidio dei limiti. Ѐ cresciuta la standardizzazione mentre sono aumentati divari e disuguaglianze tra territori, scuole, persone. Tutte le discipline sia teoriche che pratiche si parlano molto più di prima e, al contempo, cercano nuove regole perché sono caoticamente accessibili e usate in mille forme, che investono i processi di apprendimento e il controllo delle fonti. Il come si impara viene indagato da molte prospettive comprese le neuroscienze, in relazione, sia alla “tenuta” educativa e alla necessità di esempi e guide credibili, sia alla cura dei contesti, delle esperienze e tecniche didattiche, sia al governo di procedure analogiche, logiche, digitali. La rete e i luoghi di vita conoscono molte culture e lingue e la globalizzazione è davvero prossima a chi impara, mentre crisi climatica, guerra, pandemia pongono l’incertezza al centro delle prospettive.

Mi chiedo: oggi confrontarsi con don Milani può finalmente accogliere le parole di don Balducci? Me lo chiedo guardandomi dentro, perché, come tanti, ho scelto di fare il maestro nel 1975 in quel “mondo che è finito”. Avevo in mente Lodi, Ciari, Bernardini, Freinet e anche Milani. Perché quando ci si avvicinava al mestiere di insegnare “a leggere, scrivere e far di conto” – così si diceva – si guardava sì alla teoria, a Vygotstkij, Dewey, Piaget, eccetera, ma, al contempo, si sentiva l’urgenza di imparare da chi “faceva le cose”. Poi, è venuto il tempo, difficile, di guardare al Novecento conquistando distanza dalla scena educativa del secolo breve, senza alibi, facendo i conti con ingenuità ed errori ma conservando le fonti d’ispirazione. Per poter superare rivendicazioni, velleitarismi, nostalgie e non cadere nella rinuncia o nella rimozione si è dovuta esplorare la nuova scena lontano dalla ricerca di qualche rassicurante colpevole tra i potenti o nei moti della società e, poi, guardare ai propri maestri misurandone grandezze, limiti, ambivalenze, dualità. Per poter ritornare a don Milani – con questo approccio – è oggi una fortuna poter leggere la luminosa introduzione di Alberto Melloni a Tutte le opere.

Con questi pensieri in testa ho letto L’equivoco don Milani di Adolfo Scotto di Luzio. L’autore non si pone il compito di uscire dal Novecento. La controversia che egli riaccende sta già, in nuce, nei mesi successivi all’uscita di Lettera a una professoressa. Ma fu, nel 1967, una misurata contesa a molte voci. Prevalsero, infatti, i modi propri della sorvegliata approvazione o della critica puntuale. Gli esponenti delle culture liberale, cattolica, socialista, comunista seppero prendere sul serio i contenuti e gli autori di quel testo, pur così radicale. In particolare, ancora colpiscono le frasi con le quali Aldo Visalberghi – voce della pedagogia liberal-socialista, studioso dell’educazione nel mondo e che credeva fermamente nell’apprendimento secondo i canoni delle discipline – seppe prendere sul serio i ragazzi di Barbiana. Condivise la loro documentata critica alla selezione su base classista che continuava a connotare la scuola media nonostante la riforma del 1962. Concordò sul fatto che una scuola “di classe” smentiva il mandato che la Costituzione le assegnava. Ritenne legittime le considerazioni sulle bocciature nella scuola dell’obbligo anche guardando ad altri modelli di istruzione nel mondo. E concludeva: “Dunque, questa lettera a una professoressa non è lo sfogo di animi esacerbati, ma un serio e sensatissimo appello a tutta la società italiana, un appello che non deve restare inascoltato”.

La riflessione ritornò meno accorta nel 1992 in occasione dei 25 anni dalla morte del priore. Si infiammò a seguito di un articolo di Sebastiano Vassalli su “la Repubblica” che il giornale titolò Don Milani, che mascalzone e che riprendeva considerazioni di Roberto Berardi alla ricerca di univoche colpe che spiegassero le difficoltà del fare scuola. Le repliche furono a volte alte, in particolare quella di Tullio De Mauro, e altre volte no, perché ispirate da difese d’ufficio e banalizzazioni.

L’equivoco don Milani ridesta molti discorsi del 1992. Ma l’autore ha l’attenzione di porre al centro, con ricchezza di pensieri, una domanda, importante: perché il massimo delle attese democratiche riguardo la scuola pubblica italiana sono state riposte nell’esperienza di una piccola scuola privata di montagna di sessanta anni fa, condotta in modo monocratico da un prete? Non penso che il massimo delle attese si siano riversate su Barbiana. Ha ragione, infatti, l’autore nel ricordare che Barbiana non ebbe continuità dopo la morte del priore. E, poi, molto altro vi è stato per suscitare attese grazie a migliaia di esperienze rigorose nella scuola pubblica (che l’autore, peraltro, richiama) e nel civismo educativo, che, con fatica, mettono insieme tradizione e innovazione, apprendimento e accoglienza. Credo che la risposta sia che si è guardato a Barbiana – come ha fatto di recente anche Sergio Mattarella nella sua visita lì – perché la questione dell’ineguaglianza in educazione resta aperta, perché perdura la corrispondenza tra povertà e fallimento formativo. In una nazione ricca e che fa pochi figli, le persone sotto i 18 anni in povertà assoluta sono 1.273.000 e quelli in povertà relativa 1.924.000. In totale 3,2 milioni su 9,4 e sono questi che abbandonano la scuola o imparano poco. Infatti, non finiscono le scuole il 13,3 per cento dei ragazzi ma sono il 24 per cento nelle regioni più povere e il 30 per cento nelle aree di massima povertà, e quelli che vivono nelle famiglie con il più basso livello socio-economico hanno più del triplo di probabilità di non raggiungere le conoscenze minime rispetto ai coetanei delle famiglie più benestanti (dati Istat 2021 e Ocse-Pisa).

Così, è anche inevitabile volgere lo sguardo a Barbiana. Lo si può fare in due modi. Un modo è inaccettabile: non si esamina il nuovo contesto e si assume Barbiana come alibi per non concentrarsi sui compiti della riparazione educativa e dell’insegnare bene. Alberto Melloni riesce a dirlo con salutare durezza: “lo stuolo di insegnanti e pedagogisti che si sono avventurati nei meandri del loro narcisismo credendosi iscritti di diritto all’albo d’oro dei ‘milaniani’ per avere dedicato qualche briciolo di tempo al male del mondo che si arena sul litorale scolastico…”. L’altro modo è lavorare sodo e battersi perché la Repubblica – il che significa ciascuno di noi – torni a occuparsi dell’ineguaglianza costruendo comunità educanti dedicate a garantire che tutti apprendano bene, a scuola e anche fuori. Lo stesso autore, alla fine del libro, pare evocarlo: “Si tratta di decidere se non sia arrivato finalmente il momento di guardare le cose per quelle che sono e ricorrere ai ripari”.

Ma torniamo all’“equivoco”. Esso consisterebbe in qualcosa che, a partire dagli anni settanta, quasi tutta la cultura pedagogica non ha voluto vedere. Lettera a una professoressa non sarebbe stato un vero lavoro di scrittura collettiva dei ragazzi; a Barbiana vi sarebbe stato l’imperio del maestro che avrebbe fatto prevalere narcisismo e estremismo originati dal doppio tradimento della sua classe sociale e della sua ebraicità e dalla sete di assoluto propria della sua vocazione; pur agendo a favore di ragazzi poveri, il priore avrebbe ingaggiato la sua battaglia non per favorirne l’emancipazione né per aiutare la “rimozione degli ostacoli” all’eguaglianza, come da Costituzione, ma per inverare il Vangelo e, dunque, contro il moderno e le sue sirene, contro la borghesia in quanto tale, contro il patto civile e il diritto dell’individuo di imparare al fine di farsi persona libera e responsabile; avrebbe così costruito un modello di avversione alla scuola pubblica anziché una testimonianza diretta a renderla più equa, perciò smentendo la cultura come si è storicamente determinata invece di studiarla criticamente; avrebbe disconosciuto il valore della stessa lingua italiana così come avrebbero fatto pure i linguisti democratici, riducendola, insieme alle altre discipline, a mera utilità.

Al di là di molte possibili considerazioni sui temi e le argomentazioni di Scotto di Luzio, nel libro davvero non convincono due cose. Il carattere unidirezionale della concatenazione proposta, con l’idea che la complessità della scena e dell’uomo possano essere ridotte entro un equivoco, che è stato accolto per sessanta anni da tanta parte della società. La negazione dell’ispirazione prevalente in don Milani, che fu invocazione di una scuola più equa, come scrive bene Franco Lorenzoni nel suo ultimo bellissimo libro, quando tratta del rapporto tra Mario Lodi e don Milani: “Non è lecito parlare di don Milani senza ricordare la tenacia e la coerenza con cui, per tutta la vita, ha costruito comunità per dare voce a chi non l’aveva”.

Infine, forse, è ancora ragionevole fare un invito, a cento anni dalla nascita di don Milani: ridestiamo, nelle nuove condizioni, il discorso pubblico sull’apprendere tutti e bene e facciamone una priorità politica.

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M. Rossi Doria, è maestro elementare ed esperto di contrasto della povertà educativa