Contro oratorie e difese corporative
recensione di Danilo Bonora
dal numero di gennaio 2018
Claudio Giunta
E SE NON FOSSE LA BUONA BATTAGLIA?
Sul futuro dell’istruzione umanistica
pp. 306, € 16
il Mulino, Bologna 2017
Il libro di Claudio Giunta raccoglie e rifonde articoli e saggi sia inediti che pubblicati in volumi miscellanei, giornali, riviste, blog, inserendosi di diritto nel settore più brillante della saggistica sulla scuola. Eppure si tratta di uno dei temi “meno sexy” (copyright Adolfo Scotto di Luzio) del dibattito contemporaneo: la scuola, l’università e il loro bagaglio di piagnistei, nome di un raccoglitore che l’autore tiene nel suo studio (memore forse del libello di Robert Hughes), repository di una vasta e piagnucolosa crestomazia sul tema della decadenza dell’istruzione e in particolare degli studi umanistici.
E se non fosse la buona battaglia? giustifica infatti il suo titolo con la critica dell’uso spropositato di metafore belliche e catastrofiche (ad esempio nei testi di Martha Nussbaum) per lamentare la decadenza delle belles lettres e paventare l’ingresso dell’umanità in un nuovo medioevo. Trattandosi di oratoria grulla, applicata a mutamenti tutto sommato fronteggiabili con un po’ di pragmatismo, ha l’aria di essere al postutto la difesa corporativa di docenti universitari di humanities, signori allocati in un posto con “molto tempo libero” e “pochi obblighi reali, e quei pochi quasi tutti aggirabili”. “Non c’è nessuna battaglia”, scrive Giunta, “Dobbiamo ragionare come membri di una comunità, non come una chiesa. E il discorso dei valori e della battaglia è comodo farlo quando si riceve uno stipendio alla fine del mese, e il costo del nostro idealismo lo pagano gli altri”. Il pamphlet si candida dunque a diventare un buon vademecum per farsi un’idea precisa di come stanno le cose nel campo della formazione (non solo di quella umanistica, campo precipuo dell’autore), consigliabile alle legioni di studenti che, sbrigata la pratica dell’esame di stato (maturità), varcheranno i portoni delle nostre università con la speranza di incardinare la propria vita su studi ben fatti e redditizi.
Manuale pratico
La prima parte del libro è dedicata all’istruzione: lucida e molto informata – rara avis in un docente universitario, per non parlare di certi columnist che discorrono di scuola sulla base di vaghi ricordi personali – fa un po’ di ordine nella chiacchiera mediatica, pronta ad agitarsi solo se qualcuno okkupa o un professore zompa addosso alla studentessa. La seconda sezione affronta alcune magagne dell’università: le penose condizioni logistiche (altro che campus…), lo status dei dottori di ricerca (tra i più infelici dell’accademia), la formazione degli insegnanti, pericolosamente affidata a cattedratici che di scuola sanno ben poco.
Nei primi capitoli – con l’aiuto di alcuni maestri, come il Guido Calogero della Scuola sotto inchiesta del 1957 – si fa giustizia delle retoriche pro e contro l’istruzione odierna e si espungono vari idola fori, tra cui la sacrale primazia della scienza (che non ha bisogno di avvocati, si difende benissimo da sola), la corsa affannosa alla mobilità internazionale, l’informatica à gogo, la sciagurata introduzione a tutti i costi degli stages nei licei. Il discorso sull’insegnamento, come non è noto, è stato monopolizzato da tecnici della pedagogia alieni dalla realtà delle classi, della cui produzione, al limite della demenza, Giunta allega un allucinante florilegio nel capitolo intitolato Didattica della fuffa. Tale infatti è giudicata dalle vittime, i corsisti per l’abilitazione all’insegnamento, alle prese con una prosa degna dei manuali di self-help, costellata di “formulette patetiche”, verbose ovvietà, “sconci pastiche di Husserl e di Heidegger”, filosofi che non c’entrano un accidente con i bisogni dell’istruzione di massa.
Un articolo piuttosto deprimente racconta l’esperienza di Giunta come esaminatore nei corsi abilitanti; verrebbe voglia di confrontarlo con un elzeviro del vecchio Giorgio Pasquali in veste di commissario ai concorsi di tanti anni fa (lo si può leggere nelle Pagine stravaganti), giusto per misurare la distanza stellare. Oggi risulta impossibile bocciare gli asini: “per inerzia”, per umana comprensione della situazione dei candidati, “per evitare i ricorsi”.
E se non fosse la buona battaglia? non si limita ai massimi sistemi e provvede qualche esempio su come affrontare l’insegnamento di discipline sempre meno gradite, diventando anche una guida pratica per cavarsela con Dante & co. davanti a fanciulli sonnecchianti al cospetto della nostra antica grandezza. Se gli studenti nel mondo reale sono quelli che sono, ragazzotti interessati anzitutto alla nutrizione, alla pennica dopo le lezioni, all’impennata fallica con il Ktm e alla caccia alla studentessa callipigia, dobbiamo farcene una ragione e lavorarci seriamente, in modo che, passo dopo passo (come nella splendida July Mountain di Wallace Stevens: “the way, when we climb a mountain, / Vermont throws itself together”), riusciremo tutti a vedere almeno uno spicchio di panorama.
Giunta è responsabile di un fortunato manuale di letteratura per le scuole, che ha passato l’aspirapolvere sul gergo accademico e spiegato in plain italian cos’hanno combinato gli scrittori dal medioevo fino ai giorni nostri; non ha quindi imbarazzi nel liquidare il vacuo allarme sulla nostra lingua maltrattata da una spensierata gioventù attaccata allo smartphone (perché, gli adulti no?), e nel dire che insegnare a scrivere bene, oltre che impossibile, è inutile, perché là fuori serve a poco e non è affatto indizio di qualità fuori del comune. Tempo fa Alessandro Dal Lago confessò di aver promosso più di uno studente sgrammaticato ma vispo quanto bastava per farsi strada nella vita (come ha fatto il fratello dell’autore, nonostante il suo litigioso rapporto con i libri) e Zadie Smith ha osservato che oggi buttar giù qualche cartella come si deve non è poi questa gran cosa.
Buon senso
Nel capitolo Perché odiate me?, ricco di acute considerazioni sullo stile della scrittura scolastica (alzo di registro, desolazione sintattica, emulazione fallita di un modello “alto”, avrebbe detto Tommaso Labranca), Giunta ricorda provocatoriamente le lodi di Paul Goodman all’insegnante che aveva dato a una classe questa traccia: “Dite perché odiate vostro padre, perché odiate la scuola, perché odiate me”. Pensa che questo sia un po’ troppo, ma sospetta che quei temi saranno stati molto interessanti; posso assicurare che gli studenti, allergici come tutti ai ditirambi, sono molto bravi coi giambi, soprattutto se indirizzati ai prof: rem tene, verba sequentur.
Una nota finale su una valutazione di Giunta del celebre episodio di Se questo è un uomo in cui Levi ad Auschwitz prova a passare al compagno Pikolo qualche verso del canto dantesco di Ulisse, e sia pure nel contesto di una sacrosanta requisitoria contro la concezione edificante della letteratura. Non direi che si tratta di una pagina “dolciastra e artefatta”: è stato il suo melenso uso scolastico ad averla inzuccherata, come molte altre cose. Oltre tutto, Primo Levi a suo tempo difese con energia la necessità della chiarezza e della semplicità comunicativa contro gli ambigui innamorati dell’oscurità coûte que coûte con osservazioni colme di quel buon senso che è uno dei pregi non secondari di questo bel libro.
bonoradanilo@gmail.com
D Bonora è dottore di ricerca in italianistica presso le Università di Padova e Venezia