Una categoria autodimostrata
recensione di Bruno Maida
Carlo Barone
LE TRAPPOLE DELLA MERITOCRAZIA
pp. 239, € 22
Il Mulino, Bologna 2012
Fu un sociologo inglese, Michael Young, a inventare il termine nel 1958: in un racconto satirico dal titolo L’avvento della meritocrazia immaginava che nella società inglese del 2033 si sarebbero incarnati pienamente gli ideali del merito, definibile attraverso un’equazione (merito = quoziente intellettivo + impegno). Insomma, ognuno sarebbe stato collocato nel posto giusto, da un punto di vista sociale e lavorativo, sulla base della sua innata intelligenza e dai risultati ottenuti attraverso il suo impegno. Nel momento stesso, però, in cui quell’ideale si fosse realizzato, sarebbe scoppiata la rivolta contro quel sistema. Nella sua finzione narrativa, Young mostrava così le contraddizioni di un ordine fondato su un meccanismo apparentemente egualitario che tuttavia poteva alimentare altre disuguaglianze e divisioni sociali. “La satira di Young – scrive Barone – contiene quindi un duplice avvertimento: realizzare la meritocrazia è estremamente difficile, e può rivelarsi anche assai pericoloso”.
A guardare il dibattito che attraversa in questi anni il nostro paese (molto giornalistico e assai poco scientifico), sembrerebbe che l’invenzione satirica di Young sia stata presa molto sul serio, senza tuttavia comprenderne l’avvertimento e la cautela che conteneva. Al contrario, la meritocrazia è diventata una categoria autodimostrata, fondata sul buon senso comune, una sorta di valore necessario per una società alla ricerca di fondamenti morali. Che poi a sostenerlo siano spesso gli stessi che, nelle istituzioni e in particolare nell’università italiana, hanno fatto strame per molti anni dei principi costituzionali e dei valori a loro sottostanti, può non stupire ma certo lascia perplessi. D’altra parte, come sottolinea Barone, è proprio l’ambiguità della dimensione “morale”, che accompagna la riflessione sulla meritocrazia, che deve essere spazzata via, prima di potere affrontare un dibattito serio. La meritocrazia non si pone infatti come obiettivo l’eliminazione delle disparità sociali determinate dall’economia di mercato, bensì di renderle moralmente giustificate e accettabili. La disuguaglianza sarebbe un effetto necessario dello sviluppo e del benessere, compensabile dalle opportunità individuali che ne possono derivare. Insomma, efficienza di mercato e giustizia sociale possono convivere.
E’ proprio così? Il saggio di Barone è una lucidissima critica ai sostenitori di quel modello di meritocrazia, non perché l’autore contesti l’utilità del concetto quanto piuttosto l’uso indiscriminato che ne viene fatto, funzionale in realtà alla conservazione dell’esistente. Affinché il merito possa costituire una condizione della giustizia sociale è necessario, secondo l’autore, seguace delle teorie di John Rawls, che innanzitutto vi sia accordo sulle procedure che in generale giustificano l’esito finale della distribuzione. Ma dire che a prestazioni migliori debbano corrispondere maggiori risorse non è sufficiente, perché è un’asserzione che non spiega quali regole debbano essere adottate. Da questo punto di vista, devono essere seguiti tre principi. Il primo è che la competenza e la prestazione siano obiettivi di efficienza in grado di essere rilevanti per l’intera collettività. Il secondo è che i benefici che si ricavano siano distribuiti all’interno della stessa collettività. Il terzo è che tale distribuzione consenta a chi riceve di ottenere di più rispetto a quello che avrebbe in un sistema meno efficiente. Il messaggio è chiaro: la meritocrazia è un mezzo, non un fine, soprattutto non deve essere visto come un obiettivo individuale, ma come uno strumento per il miglioramento della collettività.
Quando si va a osservare la società italiana il quadro è però sufficientemente sconfortante. L’analisi che Barone svolge è selettiva ma significativa. Il suo sguardo si sofferma sui destini occupazionali dei giovani e sul futuro dell’istruzione, due nodi naturalmente essenziali per lo sviluppo e per immaginare quale forma di giustizia sociale si intende affermare. Due sono i vincoli principali, che si intrecciano assai poco virtuosamente: il peso dell’ereditarietà sociale, diminuito ma non a sufficienza negli ultimi quarant’anni, e un’espansione scolastica non governata, ossia una scuola di massa che, non indirizzando e non formando al lavoro, ha in realtà contribuito ad alimentare le differenze e le distanze sociali. Ecco, dunque, che parlare di meritocrazia diventa un inganno evidente perché, in una condizione di sostanziale immobilismo sociale nel quale le opportunità non sono accessibili a tutti e alle stesse condizioni, gli effetti di una distribuzione delle risorse a partire da un principio del genere significa incrementare le disuguaglianze sociali. Non a caso, lo sguardo di Barone si appunta, in modo acuto e rigoroso, sull’istruzione secondaria, sulla necessità di sviluppare e governare i percorsi di professionalizzazione, sulla valorizzazione della cultura del lavoro manuale, sulla centralità del diritto allo studio. Né meno puntuali sono le osservazioni sul sistema universitario e nuovamente sul diritto allo studio, rispetto al quale l’incertezza costituisce il limite fondamentale.
Meno convincente è la liquidazione con un’alzata di spalle del dibattito sulla “società della conoscenza” e l’affermazione – non sostenuta da ragioni, all’interno di un saggio di grande equilibrio – secondo la quale è giusto aiutare gli studenti universitari “ma se poi si arricchiscono grazie alla laurea, potranno restituire gradualmente almeno parte del denaro ricevuto”. Sostenere che uno studente si laurei grazie al sostegno pubblico, quando questo in realtà è un diritto costituzionale (oltre ad alimentare la disuguaglianza, perché chi non avrà avuto bisogno di chiedere quel finanziamento sarà doppiamente favorito quando inizierà a lavorare), è perlomeno discutibile e il tema dei prestiti d’onore rischia di diventare uno di quei temi che, come la meritocrazia, sono troppo spesso assunti in modo acritico e dato una volta per tutte.
Al di là di questo, il saggio pone due questioni essenziali. La prima è la cultura delle pari opportunità, senza la quale non è pensabile, se non al prezzo di una crescente disuguaglianza sociale, alcuna politica fondata sul merito. La seconda è la relazione tra individuo e collettività nella costruzione di relazioni sociali ed economiche che non si connotino come alternativa tra atomizzazione degli interessi e centralità delle masse, bensì come progettazione di una società capace di investire tanto sull’uguaglianza quanto sulla differenza, e in grado di stimolare partecipazione e collaborazione (e vale la pena di leggere con attenzione le pagine dedicate da Barone al tema degli incentivi e delle punizioni). Regole e procedure ne sono una condizione rilevante, ma senza una cultura e un orizzonte etico che le sostenga si traducono in pericoloso formalismo. Lo spirito civile che anima le pagine di questo volume è un esempio, sotto questo profilo, che ogni studioso dovrebbe seguire.
bruno.maida@unito.it
B Maida insegna storia contemporanea all’Università di Torino