La psicoanalisi ha il dovere di collaborare con le neuroscienze
di Daniela Ovadia
dal numero di gennaio 2016
Le mani, il volto, il seno. La madre di Massimo Recalcati (Le mani della madre. Desiderio, fantasmi ed eredità del materno, pp.187, € 16, Feltrinelli, Milano 2015) è carne, ancora prima che mente. Nel suo ultimo libro lo psicanalista lacaniano abbandona infatti la figura del padre, di cui ha sviscerato e interpretato l’assenza e la perdita di ruolo in Cosa resta del padre (Cortina, 2011) e in Il complesso di Telemaco (Feltrinelli, 2013), per affrontare, in Le mani della madre, il ruolo e la figura della genitrice partendo dal significato reale e simbolico delle parti del corpo.
Il saggio si apre con la descrizione di una scena di un film datato 1968, La madre di Torino di Gianni Bongioanni, che narra un fatto di cronaca: un bambino di quattro anni gioca sul terrazzo e cade nel vuoto, ma all’ultimo riesce ad afferrare le sbarre della ringhiera. La madre se ne accorge, lo trattiene per le mani ma non riesce a sollevarlo per portarlo in salvo. I due rimangono così, mani nelle mani, per ore. La madre grida e cerca di attirare l’attenzione dei passanti ma solo dopo molto tempo arrivano finalmente i soccorsi e liberano la donna, stremata. La scena è rimasta impressa nella mente di Recalcati, che ha visto il film da bambino: egli vede nel gesto della donna l’archetipo del materno, le mani che accolgono la nuova vita alla nascita e che la trattengono quando l’essere umano pencola pericolosamente nel vuoto. Le mani della madre, secondo la scuola lacaniana a cui l’autore appartiene, sono anche la prima lingua, la prelingua che precede l’espressione verbale, quella che Lacan stesso chiama con un neologismo “lalangue”, “lalingua”, che non solo produce i primi gesti ma anche le prime lallazioni, i versi e rumori. La lingua che parliamo, dice Lacan e con lui Recalcati, nasce dalle mani della madre.
Il secondo carattere fondante del materno è il volto, che nei primi mesi di vita rappresenta tutto il mondo. È infatti l’unica cosa che il bambino riesce a vedere. Anche in seguito, il volto materno è lo strumento attraverso il quale il piccolo rispecchia se stesso. L’autostima, la sensazione di essere belli o brutti, ci dice l’autore che tratta spesso pazienti con disturbi dell’alimentazione, nasce da ciò che abbiamo letto nel volto materno. Per questo la depressione materna è una patologia che incide non solo sulla persona che ne soffre ma anche sui figli, che guardano il mondo attraverso la lente deformata della sofferenza della madre. Il bambino diventa così il meterologo del volto materno, dice l’autore, alla ricerca dei segni premonitori di un imminente uragano, e si chiude al mondo. Il figlio guarda il volto materno ma non vi si specchia, come diceva lo psicologo Donald Winnicott: la madre perde il ruolo di holding, di contenimento dell’angoscia infantile, e il piccolo sviluppa a sua volta un disturbo dell’umore.
L’elemento che caratterizza il materno è il seno che rappresenta l’allevamento ma anche il sacrificio della madre. Il bambino ha bisogno di essere nutrito e la madre del seno risponde a questo bisogno impellente. Ma il seno può essere anche segno, ovvero rappresentare la presenza amorevole della madre, ed è per questo che il bambino lo cerca anche quando non ha fame. Le bambine anoressiche, che hanno dubbi sull’amore materno, dice ancora Recalcati, rifiutano il seno perché cercano il segno.
L’approccio dell’autore alle psicopatologie è noto ed è ovviamente fortemente influenzato dalla scuola di pensiero a cui appartiene e dalla sua attività clinica come psicoanalista. Il lettore più attento alle moderne interpretazioni di fenomeni come l’anoressia e la depressione infantile non può però non notare la totale assenza di riferimenti a tesi interpretative diverse, che non collegano necessariamente l’eziologia di questi disturbi alla figura materna ma, rimanendo in ambito psicodinamico, a uno squilibrio generale del “sistema famiglia”, in cui giocano un ruolo importante anche il padre e gli eventuali fratelli; per non parlare degli studi più prettamente neuroscientifici, che hanno dimostrato, nelle anoressiche e nelle bulimiche, alterazioni e mispercezioni della mappa corporea che fanno pensare anche, se non a una causa prima, almeno a un substrato di origine biologica. D’altro canto è noto che l’autore non ama l’approccio neuroscientifico alla psicologia, nemmeno quando questo è favorevole all’integrazione delle discipline, al fine di dare alle teorie psicanalitiche, oltre alle già presenti basi filosofiche, anche la solidità della scienza. In un articolo uscito sulla “Repubblica” il 7 settembre 2015, Recalcati così si esprimeva: “Nelle Università, non solo italiane, la psicologia tende sempre più ad abbandonare il campo delle cosiddette scienze umane per scivolare verso quello delle scienze obiettive, ispirate al criterio della quantificazione dei risultati. Una tesi di laurea che non sia corredata da sequenze di numeri, grafici matematici, curve statistiche, oltre che da ‘inglesismi’ di ogni genere, viene ormai considerata, a priori, come una tesi di serie B (…). Del paziente, della sua anamnesi, della sua storia clinica, delle sue particolarità più proprie, non restava più nulla. Il feticismo della cifra e della generalizzazione protocollare aveva semplicemente inghiottito quello che ogni scienza medica dovrebbe invece rispettare: l’incomparabilità assoluta del soggetto”.
Per chi invece apprezza proprio quelle dimostrazioni e quei numeri che l’autore ritiene superflui, appaiono eccessive alcune affermazioni aneddotiche, valide nel contesto di una visione teorica totalizzante del funzionamento psichico, in particolare se queste vengono generalizzate e assurgono a modello interpretativo. È questo probabilmente il maggior limite di un saggio che altrimenti risulta ricco di suggerimenti colti e di spunti di riflessione.
Chi è la buona madre?
Recalcati cerca anche di rispondere alla domanda delle domande, ovvero che cosa fa di una madre una buona madre. E dà la stessa risposta di Lacan: se la madre è, secondo Freud, il primo soccorritore, l’essere che consente il soddisfacimento dei bisogni primari, per essere una buona madre deve continuare anche a essere donna, ad amare il mondo e a non fare del proprio figlio l’unico centro di interesse. Le madri che si sacrificano per la vita del figlio tendono anche a inglobarne l’esistenza, come in una eterna gravidanza: sono quelle che Lacan chiama madri coccodrillo, la cui frequenza, dice Recalcati, è più alta nelle società in cui i padri incarnano la Legge (ruolo che hanno oggi abdicato) e in cui le madri incarnano la cura. Se il desiderio di maternità si trasforma in desiderio del figlio, soffocandone la legittima necessità di autonomia, si realizza la figura della madre che fagocita, con le fauci aperte, la vita della propria progenitura. Le madri coccodrillo sono la psicopatologia della maternità del passato patriarcale, ma le madri narcise sono la psicopatologia della maternità moderna, afferma Recalcati. Se le prime inglobano i figli, le seconde li rigettano perché troppo occupate a perseguire il successo nel lavoro o le relazioni personali. È questa la parte del libro che ha suscitato maggiore dibattito, in particolare nel mondo femminista: le donne-madri sono sempre, in un modo o nell’altro, in precario equilibrio tra l’essere troppo poco e l’essere troppo, tra donare quello che hanno (il seno, il nutrimento) e ciò che non hanno (essenzialmente il tempo). Eppure in questo dono è la loro essenza, dice Recalcati, riportando la lettrice che è anche madre all’eterna ricerca della perfezione, del troppo che non stroppia. L’eredità dei padri è la Legge (il cui scopo principale è di mitigare il desiderio che, senza limiti, diventa fonte di guai), ma l’eredità delle madri è la cura del particolare, perché ogni figlio è unico. Il tutto però deve avvenire con una moderazione che raramente si riscontra nella vita reale.
Anche se Recalcati in alcuni punti sottolinea che materno e paterno possono non coincidere con la madre e il padre biologico, l’intera visione della famiglia che propone è fortemente caratterizzata dai ruoli di genere e predeterminata anche dalla biologia (la gestazione, il parto). E anche se l’autore dichiara di aver abbandonato la sua originaria matrice cattolica, se ne sente nondimeno l’influenza. Talvolta Recalcati sembra dimenticare che le madri coccodrillo esistono ancora oggi persino (o soprattutto) laddove è assente la figura paterna; e che di madri narcise è piena la storia, fin dall’antichità. Sembra anche sorvolare sul fatto che la figura materna e paterna così come la intendiamo oggi è uno sviluppo sociale relativamente recente, legato all’ascesa della borghesia. Nei ceti sociali più abbienti, i seni materni erano, fino a poco più di un secolo fa, quelli delle balie, così come le mani erano quelle delle serve. In quelli meno abbienti, i volti delle madri che partivano per lavorare lontano erano sostituiti da quelli delle nonne, delle zie e anche dei padri. La realtà è che la cultura interferisce con la natura e, di conseguenza, anche con il materno e il paterno.
Oggi “madre” può essere qualsiasi figura accudente, indipendentemente dal sesso e persino dal legame biologico col bambino. “Padre” o figura di riferimento per la Legge può essere anche la madre. Padri e madri si trovano in molte famiglie a ricoprire ambedue i ruoli in modo pressoché egualitario. Mai come al giorno d’oggi vale la percezione comune che non esista una famiglia uguale all’altra e che ogni famiglia disfunzionale lo sia a modo proprio, per un disequilibrio che è del tutto peculiare e non generalizzabile. L’autore sembra sottintendere (per esempio quando stigmatizza certe forme burocratiche del politicamente corretto, come l’uso dei termini genitore 1 e 2 al posto di madre e padre) che nessuno può essere allo stesso tempo il polo della cura e il polo delle regole, ma la realtà del quotidiano dimostra il contrario, con il moltiplicarsi di famiglie monoparentali od omoparentali. E, per quanto ci dicono finora gli studi di psicologia sociale (la “psicologia dei numeri”), non esiste alcuna dimostrazione del che tali “confusioni” generino figli più infelici o più disturbati della media. Le mani della madre è quindi un libro che vale la pena di leggere per la ricchezza degli esempi che offre, per le riflessioni sull’importanza del prendersi cura dell’altro, ma al termine della lettura rimane senza risposta una domanda essenziale: quanto contribuisce la psicoanalisi, con i suoi assunti teorici e con libri come questo, a perpetuare gli stereotipi di genere che sono, in fondo, la ragione principale che spinge le madri a sacrificarsi fino all’eccesso e i padri ad agire come padroni?
daniela.ovadia@gmail.com
D Ovadia insegna neuroetica, è condirettore del laboratorio Neuroscienze e società presso l’Università di Pavia