La vita è un lavoro da sbrigare, scrivendo
Con Works Vitaliano Trevisan si aggiudica il Premio Sila 2016 per l’impegno civile nella sezione «Letterature».
recensione di Claudio Panella
dal numero di ottobre 2016
Vitaliano Trevisan
WORKS
pp. 656, € 22
Einaudi, Torino 2016
Il nuovo libro di Vitaliano Trevisan (nato a Sandrigo nel 1960) non è soltanto un racconto memoriale denso e corposo di oltre 650 pagine dedicato alle esperienze lavorative del narratore, ma è soprattutto una sorta di compendio e summa del progetto di scrittura perseguito dall’autore con coerenza nel corso di almeno due decenni tra letteratura, teatro e cinema.
Ciò nonostante, nell’ambito di un dibattito italiano segnato da letture semplificate dei «nuovi realismi» (plurale d’obbligo) in letteratura, Works rischia di venire ricondotto frettolosamente a uno di quei pre-discorsi attualmente circolanti da cui il testo è attraversato sia suo malgrado sia consapevolmente ma in maniera originale; come in particolare quelli relativi alla «nuova letteratura del lavoro» o alla letteratura del così detto «nordest» d’Italia. A proposito di quest’ultima determinante geografica, bisogna rilevare come siano in effetti numerosi gli scrittori di origine veneta e friulana che a cavallo del nuovo millennio hanno dedicato alla loro terra un insieme sempre più cospicuo di opere dalle forme dissimili, accomunate però dall’intento di esplorare le mutazioni socio-culturali verificatesi negli ultimi decenni in quelle regioni orientali della penisola. Ci si riferisce qui, per esempio, ai noir ambientati nel Triveneto di Massimo Carlotto, ai romanzi del padovano Romolo Bugaro, all’esordio di Francesco Maino, Cartongesso (Einaudi, 2014), o a quelli d’ambientazione friulana di Emanuele Tonon e Massimiliano Santarossa.
Il Meridione del Nord
Questi e altri autori, tra i quali Trevisan ha sì un ruolo di capofila ma sui generis, hanno messo in questione nelle loro opere quel nordest affermatosi nei decenni terminali del Novecento con la forza di una costruzione retorica di tipo utopico assai pervasiva. Il «nordest» è una risultante della trasformazione di quello che fino agli anni sessanta era detto il «meridione del nord», dalla lunga tradizione agricola, nella «locomotiva d’Europa» additata a modello per la sua capacità di alimentare un «capitalismo molecolare» frutto di una rete capillare di piccole e medie imprese lanciatesi nel mercato globale. Un modello fondato sulla religione del lavoro, vale a dire sul superlavoro di migliaia di auto-imprenditori e dei loro dipendenti, sulla flessibilità e sull’abbassamento dei costi della manodopera, oltre che su forme di illegalità più e meno conclamate. Tale sistema oggi si è già fortemente disgregato, prima a causa della mondializzazione sempre più spinta (con le delocalizzazioni conseguenti verso l’est Europa o l’est del mondo) poi per la crisi economica internazionale, ma sono ancora del tutto irrisolte le sue implicanze più problematiche tanto economiche quanto identitarie.
Lo stesso Trevisan ha demistificato l’immagine propulsiva della «locomotiva» sostituendola nel suo Tristissimi giardini (Laterza, 2010) con quella di «una gigantesca betoniera su ruote» che percorre «senza sosta queste insensatissime e rappezzatissime strade che sono il prodotto del processo digestivo della macchina stessa», cioè le deiezioni che questa «macchina frammentatrice» sparge nel «territorio». Ecco che un’altra costruzione retorica com’è quella di «territorio» – tesa a far diventare privatizzabile, edificabile e sfruttabile quel bene comune che è la terra – ci porta a esplorare l’opera di Trevisan come strumento di analisi delle costruzioni utopiche summenzionate (il nordest fondato sul lavoro che nobilita l’uomo e determina il progresso della comunità) e la sua scrittura come luogo di messa in relazione tra la soggettività e gli spazi di vita e di lavoro in cui essa si forma, tra l’autore e «la terra che lo sostiene» (un’espressione da lui usata in Tristissimi giardini).
Infatti, in modo analogo a Travaux (1945) di Georges Navel, un libro differente da questo per molti aspetti cionondimeno tra i pochi a esso paragonabili, Works si presenta come un lungo resoconto autobiografico (il cui lettore è portato a non dubitare dell’attendibilità delle vicende narrate) che racconta unicamente le esperienze lavorative affrontate dal narratore, per lo più nella provincia di Vicenza, tra i quindici e i quarant’anni circa, prima insomma di provare a dedicarsi esclusivamente a scrivere e di incontrare Matteo Garrone.
Un libretto di lavoro lungo quarant’anni
È il 1976, secondo il suo libretto del lavoro, quando il giovane autore che desidera una bici nuova viene costretto dal padre ad accettare un lavoro estivo da saldatore in una fabbrica di gabbie per uccelli; un lavoro non in nero, quindi, benché da svolgere con macchinari non a norma di legge per accelerare la produzione, mentre saranno irregolari molti dei successivi, quasi nessuno dei quali aveva avuto finora una rappresentazione efficace nella letteratura italiana recente: manovale nell’edilizia e apprendista muratore sui tetti di Vicenza, cameriere (per poche ore), operaio in una fabbrica di barche a vela, venditore di mobili che non gli piacciono, lattoniere entusiasta, gelataio in Germania (per un’estate in fuga dall’Italia), disegnatore tecnico, manutentore, aiuto orefice (esperienza interessantissima), portiere di notte… e anche, per un periodo, ladro e spacciatore di sostanze stupefacenti benché l’ultima riga del volume reciti: «Tutto ciò che potrebbe incriminarmi è frutto d’invenzione».
Pertanto, se la mappa non è il territorio, come Trevisan ama ripetere, neanche il suo libretto di lavoro corrisponde alla lunga serie di carriere mancate e «false partenze» su elencate. Ciò è paradigmatico dei percorsi discontinui e frammentari di tanti lavoratori di ieri e di oggi. Come l’«apparenza facciale» che tutti vogliamo neutra e simmetrica di cui Trevisan discettava ne I quindicimila passi (Einaudi, 2002) illustrando i modi in cui Francis Bacon ha sgretolato questa pretesa nelle sue opere, lo scrittore vicentino smaschera qui il mito del curriculum lineare e rassicurante in una società in cui l’istituto del lavoro fisso è imploso come non mai.
Una maledizione
Tuttavia, non è possibile leggere Works come un pamphlet di uno di quei «professionisti della realtà» che hanno fatto della denuncia un mercato (cfr. le prime pagine di Tristissimi giardini). Indubbiamente, per Trevisan il lavoro è e rimane una maledizione: «Oltretutto in un Paese che su detta biblica maledizione pretende di fondarsi, e, di nuovo oltretutto, in una regione, il Veneto, e in una provincia, Vicenza, che fa del lavoro una religione – ma ora, forse, più mito che religione».
Eppure, l’accumulo di occupazioni apparentemente insensate l’una rispetto all’altra rivela anche «come il lavoro altro non sia se non un’invenzione dell’uomo per contrastare l’insensatezza dell’esistenza, per rendere più leggero il peso di quell’insensatezza» senza ignorarla. E tra le pagine più belle di Works ve ne sono parecchie in cui l’autore non si vergogna di raccontare quanta soddisfazione può esserci in un lavoro manuale ben fatto, soprattutto se svolto all’aria aperta.
Inoltre, il volume s’intitola significativamente Works per riferirsi sia ai «lavori» sia alle «opere» di Trevisan e racconta anche la genesi e l’ispirazione delle sue scritture con la consueta sapienza ritmica e con dovizia di note (da considerarsi parte integrante del testo), rimandi interni e intertestuali. Se Schopenhauer scriveva nei suoi Studi sul pessimismo che «la vita è un pensum da assolvere faticosamente» (o un «lavoro da sbrigare» nella versione che Trevisan cita spesso) Works è dunque l’opera di un autore giunto nel mezzo del cammin che non vuol lasciare nulla in sospeso nella propria esistenza, cercando di dare a essa una parvenza di senso proprio attraverso la scrittura.
claudio.panella@unito.it
C Panella è dottore di ricerca in letterature comparate presso l’Università di Torino