Marco Damilano – Processo al nuovo

Un aggettivo vuoto

recensione di Anna Tonelli

dal numero di ottobre 2017

Marco Damilano
PROCESSO AL NUOVO
pp. 150, € 14
Laterza, Roma-Bari 2017

Marco Damilano - Processo al nuovoIl giornalismo contemporaneo non gode di buona salute. Non è mai corretto generalizzare, ma gran parte dei servizi su tutti i media si caratterizzano per superficialità, grossolanità, errori e palesi lacune di conoscenza. Tali difetti paiono accentuati nella cronaca politica dove manca il retroterra storico in cui collocare il resoconto dell’avvenimento che, se non inserito nella giusta cornice, rischia di non essere compreso se non nel momento del suo accadimento. Per questo viene accolto con un certo sollievo il libro di un giornalista che non si accontenta solo dell’attimo, ma va a ricercare le radici e i possibili nessi nel passato di ciò che racconta, a partire da un interrogativo: se esista un “nuovo” nella politica contemporanea. Sarà che Damilano è uno storico mancato, allievo di Pietro Scoppola, con tanto di dottorato in storia dell’Italia contemporanea. Ma le sue analisi (prima di questa, anche Eutanasia di un potere. Storia politica d’Italia da Tangentopoli alla Seconda Repubblica, Laterza, 2012) poggiano su una conoscenza scrupolosa della storia politica e di costume. Anche dalle sue frequenti presenze televisive, ci si accorge come non sia un’amante della battuta facile e ad effetto, ma abbia sempre con sé un taccuino dove annota i principali fatti che gli servono per ricognizioni ben documentate. E lo fa anche questa volta, per spiegare i caratteri della repubblica attuale (la seconda, la terza, la 2.0, la non repubblica?) andando a recuperare il bandolo di partenza. Un incipit che l’autore individua nel 28 settembre 1979 quando Bettino Craxi rilancia sulle colonne dell’“Avanti” il dibattito sulla grande riforma.

Non è tanto importante soffermarsi sui contenuti reali di quella riforma, più propagandata che reale, ma sul fatto che esplicitamente si mettesse in gioco il nuovo contro il vecchio. “Il nuovo che liquida il vecchio” con toni e accenti che, secondo Damilano, “sfiorano l’antipolitica”. Da qui fuoriesce il fiume carsico che attraversa la politica fino al terzo millennio. L’illusione di presentare una nuova era che, proprio per rinnegare quella passata, avrebbe la forza di vincere, a suon di ripudi, rottamazioni, vilipendi di riti e parole d’ordine. Il 1979 è fine e inizio. Fine, almeno apparente, degli anni duri degli scontri e della lotta armata, pur con la strage di Bologna alle porte. Ma inizio di una fase che proprio dalla presa di distanza da quel periodo da dimenticare provava a cambiare la storia. Solo un abbaglio. Di nuovo, allora come ora, c’è ben poco. È vero, come annota l’autore, che si avvertono segnali di cambiamento. I congressi politici, a partire da quelli socialisti coreografati da Filippo Panseca, diventano kermesse, con le hostess griffate, i monitor tv che rimandano l’effigie del grande capo eletto per acclamazione dai delegati, le platee a specchi, le passerelle di stilisti e cantanti. “Lo spettacolo copre magicamente il vuoto della politica”, scrive Damilano con l’occhio rivolto al presente. E forse gli anni ottanta rappresentano un punto di non ritorno.

La complessità degli anni ottanta

Troppo facile però sostenere che la stagione dell’edonismo e del disimpegno sia stata la risposta al movimentismo, all’ideologia al potere, alla società “pesante”. Solo in tempi recenti la storiografia sta rileggendo la complessità di quel decennio che non può essere considerato una semplice contrapposizione al passato e una transizione verso l’attesa dell’1989 che, facendo crollare il muro e le certezze ideologiche, scompagina tutti gli equilibri. Anche negli anni ottanta si ridefinisce un assetto culturale che investe sia il mutamento sociale che il rapporto fra istituzioni e politica. La politica si presenta in modo nuovo, con i riflettori che si accendono sul singolo che conquista la ribalta per sé (“l’io da solo contro tutti”), prima ancora che per il partito. Lo fa con grande scaltrezza Craxi, ma anche un presidente della repubblica come Pertini che va in televisione a denunciare ritardi e sprechi nel terremoto in Irpinia, partecipa alle difficili operazioni di salvataggio di Alfredino Rampi caduto nel pozzo di Vermicino, si stringe ai familiari delle vittime del terrorismo. “Nuovo e antipolitico”, lo definisce Damilano. Guardando a ritroso, si capisce che tutto è già stato inventato e sperimentato. L’antipolitica l’ha creata Marco Pannella ben prima di Beppe Grillo: una pornostar in parlamento, e poi digiuni, cartelli, bavagli, lenzuoli, molto più efficaci delle scatolette di tonno e dei salvadanai esibiti dai cinquestelle. Il non partito l’ha forgiato Silvio Berlusconi, vincendo le elezioni con la forza del suo potentato economico ma pure con la politica marketing che fa ricordare lo spot di una sua televisione “Torna a casa in tutta fretta, c’è il biscione che ti aspetta”. I cambiamenti di casacca risalgono addirittura al trasformismo di Depretis e la rincorsa agli elettori delusi è datata dai tempi dell’alternativa democratica di Berlinguer.

L’anelito al nuovo rimasto senza risposta

Solo Tangentopoli, almeno al suo apparire, ha rappresentato una frattura e una svolta, “la catastrofe di una nazione che anticipa una rinascita”, ma che in realtà lascia rovine sulle cui polveri si disegnano solo le sagome, poi distrutte, di possibili nuove forze politiche. Una indubbia rivoluzione giudiziaria che però, alla luce dell’evolversi della storia, non è stata accompagnata da un vero cambiamento politico e soprattutto morale. Perché i partiti hanno cambiato il look, ma non la sostanza e si sono rivelati incapaci di sintonizzarsi con una società che cambiava umori, costumi, sensibilità, stili di vita. In questo enigma del terzo millennio, la politica (con la complicità pure dei vari pensatoi vocati a decifrare la realtà) ha provato solo a usare la parola “nuovo” senza dare corpo a una mutazione credibile. Damilano rintraccia nel biennio 2011-2013 l’esplosione del sistema con la delegittimazione generalizzata della politica, dell’economia sommersa dalla speculazione finanziaria, del mondo intellettuale, del sindacato. Su questa crisi “bisognava solo che arrivasse qualcuno a chinarsi sulle macerie e prendersi tutto”. Quel qualcuno è stato Matteo Renzi, con i metodi noti e riconosciuti. Ma l’analisi dell’autore non è volta a dare solo un giudizio su Renzi o il renzismo, ma a capire come quell’anelito al nuovo si sia trasformato invece in qualcosa d’antico, di pascoliana memoria. Ha inciso “l’abito mediatico da indossare”, ma molto di più “un potere im-mediato, personalizzato, centralizzato che agisce a tutto campo”, finendo per intraprendere battaglie di retroguardia più che di innovazione, fino alla disfatta del 4 dicembre. Ma Renzi non è l’unico responsabile del fallimento del nuovo. Mentre gli elettori disertano le urne, i referenti politici, a sinistra come a destra (e non si dica che sono categorie sorpassate), “coltivano l’ambizione di rappresentare potenzialmente tutto e il contrario di tutto, rivelandosi in questo vecchi, vecchissimi’. E il nuovo resta solo un aggettivo vuoto se non ci si mette in testa che “il Nuovo è sempre una costruzione, una ricostruzione. Una rigenerazione”. O ancora, in aggiunta, una forma di resistenza.

anna.tonelli@uniurb.it

A Tonelli insegna storia dei sistemi politici all’Università di Urbino