Il composito universo mafioso nei racconti dei collaboratori di giustizia
di Nando dalla Chiesa
dal numero di febbraio 2014
Si può dire quel che si vuole sui cosiddetti pentiti di mafia. Il fatto è che, al di là del valore probatorio delle loro dichiarazioni in sede giudiziaria, mettono a disposizione degli studiosi e dell’opinione pubblica materiale preziosissimo. Anzitutto perché raccontano quel che solo dall’interno si può sapere di un’organizzazione segreta. Organigrammi, forme di reclutamento, processi decisionali, alleanze, strategie, interessi, delitti, relazioni con la zona grigia. Non per nulla i racconti di personaggi come Tommaso Buscetta o Angelo Siino (il famoso “ministro del lavori pubblici” dei corleonesi) sono stati di fondamentale importanza per guidare alla comprensione del fenomeno mafioso; nel caso di Buscetta, addirittura, hanno finalmente dato, quasi trent’anni fa, la certezza della sua esistenza come entità organizzata, rivelandone anche il nome di battesimo, Cosa Nostra. Non solo. I racconti dei pentiti o, più precisamente, dei collaboratori di giustizia sono una vera miniera di informazioni anche per gli aspetti non direttamente criminali. I retroterra biografici, i processi di socializzazione alla cultura mafiosa, i precetti, i codici e le deviazioni dai codici, le ossessioni, il rapporto con la violenza, i tradimenti, l’atteggiamento verso lo stato e verso i suoi rappresentanti, le passioni e le paure, gli eventuali sentimenti di vergogna. E ancora: il valore della famiglia e le donne, le amicizie interne all’organizzazione, la percezione di se stessi, il rapporto con la religione, i film e i libri, i consumi e le predilezioni gastronomiche. Insomma, aiutano a costruire un’antropologia della mafia che è di estrema utilità soprattutto in un contesto comunicativo in cui imperversano da decenni i luoghi comuni e le forme di auto-immaginazione su chi sia oggi il vero mafioso.
Per questo va vista con interesse l’uscita di due testi recenti che raccolgono interviste di protagonisti di rilievo della storia di Cosa Nostra. Si tratta del libro-intervista di Gaspare Mutolo (La mafia non lascia tempo, pp. 212, € 15, Rizzoli, Milano 2013), scritto con Anna Vinci; e del libro di Giovanna Montanaro su Gaspare Spatuzza (La verità del pentito. Le rivelazioni di Gaspare Spatuzza sulle stragi mafiose, prefaz. di Pietro Grasso, pp. 275, € 17, Sperling & Kupfer, Milano 2013). Tutti e due sono destinati a restare in modo diverso punti di riferimento per la letteratura specialistica ma anche per i lettori più attenti. Per questi ultimi e ancor prima per lo studioso si pone in effetti lo stesso problema che vale per il magistrato. Quanto credere ai racconti dei collaboratori, come “pesarne” le singole parti. Capire se e quanto possa essere stato taciuto e su cosa, in che misura le proprie responsabilità, in particolare sui delitti più ripugnanti, possano essere state sfumate. Quali messaggi possano essere indirizzati all’esterno. Perfino, nel caso di una intervistatrice donna (come avviene nei due casi), quanto la narrazione possa risentire di un impulso narcisistico o del desiderio di stupire.
Ecco, una prima ragione di interesse è che i due testi sembrano offrire un buon livello di sincerità, fra l’altro già riscontrata dagli investigatori che si sono occupati – nel corso degli anni – dei “due Gaspare”. Il libro di Mutolo ha una sua superiore coerenza metodologica. Si tratta infatti di un racconto condotto integralmente in prima persona con l’aiuto di una stessa persona che ne raccoglie e sistematizza i ricordi. Nel caso di Spatuzza si tratta invece di un colloquio di circa quaranta pagine, corredato da interviste ad alcuni dei magistrati di punta che si sono occupati del suo caso e da una densa ricostruzione storica dei fatti salienti (e sono davvero salienti nella storia d’Italia: gli anni delle stragi e del passaggio alla Seconda Repubblica) su cui il collaboratore ha testimoniato. Entrambi i protagonisti, va aggiunto, hanno infiammato con le loro dichiarazioni la discussione pubblica. Spatuzza, il killer che uccise padre Pino Puglisi, lo ha fatto chiamando in causa per i rapporti con Cosa Nostra Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi, e ribaltando la verità giudiziaria sulla strage di via D’Amelio, a cui ha preso parte. Mutolo riferendo, fra le molte cose, del suo rapporto con Paolo Borsellino e in particolare del suo incontro con il magistrato al ministero dell’Interno nel luglio del 1992, pochi giorni prima della strage di via D’Amelio; incontro interrotto da una visita indesiderata (ma organizzato dall’alto) di Borsellino con Bruno Contrada.
La storia di Mutolo, boss della famiglia di Partanna-Mondello, è un po’ anomala. Vive tra delitti e carcere, dopo un’affiliazione compiuta nel 1973, con un’autonomia di movimento che lo porta a inserirsi in uno dei più fruttuosi traffici di droga con l’Estremo Oriente nei primi anni ottanta. Diventa uno degli uomini più vicini a Totò Riina, ma sa resistere ai suoi “consigli” e praticare quel barlume di lealtà e di umanità che resta da amministrare all’interno del mondo di Cosa Nostra. Rompe poi nel ’91 con una dittatura che tutto spinge – la violenza, il tradimento, l’ambizione di potere – fino alla rottura di ogni soglia di sistema. La storia di Spatuzza è in parte successiva, ed è quella di un giovane di borgata (Brancaccio) che cresce all’ombra di un giovane capo (Giuseppe Graviano) verso il quale prova riconoscenza e venerazione, fino a chiamarlo “madre natura”. E tuttavia c’è un denominatore comune nelle due biografie. Ed è la visione di Cosa Nostra come una società superiore, dotata di regole più alte e selettive di quelle in vigore nel mondo esterno. Una società fondata su vincoli di solidarietà speciali, in grado di offrire una qualità sociale più alta.
Entrambi i collaboratori nascono poveri, ragazzini che si industriano con lavori umili. Spatuzza opera anzi al servizio dei fratelli Graviano senza ricevere compensi di mafia per diverso tempo. Né stipendi fissi, né cifre esorbitanti. Le due biografie obbligano perciò la teoria a confrontarsi con almeno due pregiudizi: quello di un potere di attrazione di Cosa Nostra fondato in prevalenza sui facili guadagni, e quello di un mondo in cui tutti indistintamente possiedono patrimoni pronti a essere portati in Borsa o nei paradisi fiscali. In realtà esiste una divisione in classi anche nella società mafiosa. E a quest’ultima, sembra di capire, si accede anzitutto sulla spinta di codici culturali, di una condivisione di valori, frutto di condizionamenti ambientali fatti di quartieri emarginati e di fitte parentele. E il mondo esterno? Zona grigia, stato, vittime: sono questi i temi che, sviluppati o toccati di striscio, contengono le indicazioni più dense, al di là delle vicende criminali. I rapporti con la celebre zona grigia, per esempio, quella che, secondo una vulgata dilettantesca, darebbe gli ordini dall’esterno. In realtà proprio l’idea di appartenere a una élite morale porta a vedere il complice incensurato (dall’avvocato al collettore di voti) come persona che non sta né con lo stato né con la mafia. Un senza patria dunque, una sorta di mercenario, incapace (come invece l’uomo d’onore) di rischiare la vita; un traditore magari da ricoprire di attenzioni, ma fondamentalmente, come dice Mutolo, un “quaquaraquà”.
Stesso atteggiamento viene riservato ai falsi “servitori dello stato”. Mentre si conferma quel che già dalle scelte di Buscetta era risaltato. Ossia la disponibilità del mafioso a riconoscere la superiore moralità dei rappresentanti dello stato quando questi sappiano distaccarsi dall’immagine (ben familiare ai mafiosi) dello stato compromesso e connivente. In tutti e due i racconti Giovanni Falcone e Paolo Borsellino campeggiano come figure superiori, degne di rispetto e di fiducia (Spatuzza ne conserva addirittura la foto sul muro della cella). Anche se i percorsi dei due collaboratori sono in realtà profondamente diversi. Abbandono delle proprie scelte alla luce di una mutata visione della vita in Gaspare Mutolo, una conversione religiosa che appare autentica – e che precede la scelta di collaborare – in Gaspare Spatuzza. Anche i familiari delle vittime entrano in gioco nella ricostruzione dei rapporti tra Cosa Nostra e società. Essi pesano infatti sui destini della mafia onnipotente di Riina. Ritenuti dalla cultura mafiosa nulla più che ombre dolenti, i familiari che chiedono giustizia appaiono nelle parole di Mutolo un imprevisto (e importante) fattore di delegittimazione collettivo proprio a metà degli anni ottanta. Come a dimostrare, ancora una volta, che il dolore può fare la storia.
N dalla Chiesa insegna sociologia della criminalità organizzata all’Università Statale di Milano