L’Europa tra democrazia e liberalismo

Ossimoro o connubio?

di Marco Bresciani

Per comprendere fino in fondo il film della storia, lo si deve sbobinare “dall’ultimo fotogramma”, spiegava Marc Bloch (morto ottant’anni fa per mano nazista). E allora, per seguire le complesse relazioni tra Europa e democrazia, si può partire dall’attuale ascesa delle destre radicali. Oggi, infatti, nessuno o quasi si definirebbe apertis verbis antidemocratico, e anche le critiche più severe della democrazia sono pronunciate in nome della democrazia. Al tempo stesso, però, fioriscono aspre reprimende nei confronti del liberalismo, e analisi allarmate delle derive illiberali e delle disfunzioni strutturali delle istituzioni democratiche così come sono.

È perciò il momento di ripensare la “democrazia”, spesso intesa come qualcosa di astratto, sempre uguale a sé stessa, eppure in perenne affanno. L’importante libro di Martin Conway spiega che oggi si può parlare di “crisi della democrazia” solo a patto di considerare come modello normativo le democrazie così com’erano emerse in Europa occidentale nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale. Osservati invece alla luce della caotica instabilità degli esperimenti politici interbellici, i caratteri distintivi di quelli postbellici – la stabilità, la prevedibilità, la sobrietà – si definirono in modo del tutto imprevisto. Le democrazie occidentali post-1945 furono un prodotto eccezionale non soltanto dell’immobilismo politico della guerra fredda, ma della combinazione di prosperità economica, efficienza governativa e compromesso sociale. Peraltro, Conway (attento lettore di Raymond Aron) sottolinea come queste furono modellate tanto dalle lezioni dei fallimenti e delle disfatte del liberalismo interbellico, quanto dalle forme di interventismo pubblico di retaggio fascista.

Sui contorti, spesso sotterranei, passaggi di idee che tra guerra e dopoguerra contribuirono alla legittimazione dei sistemi politici occidentali post-1945, getta luce inedita l’originale libro di Josè Esteve Pardo. Giuristi, ma anche scienziati politici, sociologi, filosofi ed economisti in Spagna, Italia, Francia, Germania, contribuirono a seminare sfiducia e avversione per le istituzioni parlamentari che tra le due guerre pretesero di essere onnipotenti e spesso si rivelarono impotenti, spingendo alla ricerca di alternative alla democrazia rappresentativa. Esteve Pardo si concentra su un gruppo di giuristi tedeschi, che prima coltivò il “pensiero antiparlamentarista”, poi si misurò con le catastrofiche conseguenze del crollo della Repubblica di Weimar e infine si dedicò all’elaborazione di un nuovo diritto pubblico. Di qui derivarono le nuove fondamenta giuridiche delle democrazie postbelliche, a partire dalle funzioni costituzionali di controllo sull’“assolutismo parlamentare”.

Tuttavia, per cogliere l’intrinseca fragilità e ambiguità della politica moderna, occorre uno sguardo più lungo e profondo. In un’opera dal respiro tocquevilliano per il suo accento sulla “spinta inarrestabile” dell’universalismo egualitario, Raffaele Romanelli s’interroga sulle forme della sovranità con cui si legittimarono i progetti politici in nome del popolo o della nazione, una volta che fu scossa e distrutta la legittimità d’antico regime nel 1789-92. Da qui si aprì un ampio ventaglio di soluzioni possibili, che articolò in vario modo libertà, uguaglianza e fraternità e che alimentò successivi cicli di instabilità e conflittualità. Fu così che si saldò il legame tra democrazia e rappresentanza parlamentare, attivando la dinamica di “distanza” e “vicinanza” tra politica e società. E fu così che si coagulò quella “fraternità fratricida” che alimentava “la coesione contro il nemico” più che la solidarietà sociale, giustificando il ricorso al terrore (contro)rivoluzionario. Romanelli, nondimeno, riconduce al processo rivoluzionario quella tendenza alla disgregazione dei legami sociali, che aprì la strada all’espansione dell’autorità statale e del libero mercato, con gravi strascichi e contraccolpi. La conseguente ricerca di corpi intermedi che ricomponesse il tessuto sociale lacerato dall’individualismo liberale ebbe risultati ambivalenti: prima di condurre all’affermazione dei sistemi democratici di welfare state, infatti, si caricò di motivi corporativi e antiparlamentari, gettando le premesse degli esperimenti autoritari e totalitari.

D’altro canto, il frettoloso commiato post-1989 alla storia violenta del Novecento – se non alla “storia” tout court – presupponeva una visione che tendeva a identificare democrazia, liberalismo, (neo)liberismo e antitotalitarismo. Invece oggi questi nessi sembrano porsi come problemi aperti, ricchi di ambivalenze. Con un’illuminante rilettura di testi noti e meno noti, Paola Cattani recupera le fondamenta “spirituali” o “morali” del liberalismo sullo sfondo del “processo di fatto intentato contro l’Europa liberale e democratica” nel periodo compreso tra il 1919 e il 1941. Muovendo dai suoi lavori su Paul Valéry come saggista politico, Cattani punta l’attenzione su un gruppo di autori irriducibili al canone liberale classico – tra gli altri, Julien Benda, José Ortega y Gasset, Thomas Mann, Stefan Zweig, Benedetto Croce, Johan Huizinga – con un duplice intento: da un lato, comprendere come reagirono alla “crisi dell’Europa” attraverso la loro riflessione su liberalismo e democrazia; dall’altro, individuare il perimetro di “un’etica minima liberale” entro la quale edificarono una “nuova idea di Europa” e rintracciarne la preziosa e discreta eredità fino ai tempi della crisi attuale. In un’epoca come quella interbellica segnata da “una fatale coincidenza di sopravvalutazione e sottovalutazione al tempo stesso della democrazia”, questo nucleo di scrittori e intellettuali si sforzò di mantenere “viva e vitale” la visione liberaldemocratica dell’Europa. Di fronte alle sfide fasciste, questa visione si tradusse in una rete di iniziative e conferenze che animò un senso di appartenenza transnazionale e sovranazionale quale antesignano (elitario) dei processi di integrazione continentale.

Nella lente delle opere qui presentate, la Francia si conferma il teatro sperimentale della moderna politica europea (anche se Parigi ha ormai perduto la sua centralità culturale nel vecchio continente). Certo, se si amplia lo sguardo verso l’Europa centrale, orientale e balcanica, si complica la traiettoria novecentesca dei dilemmi tra democrazia e antidemocrazia, liberalismo e illiberalismo, che assunse una curvatura decisamente più tragica a causa di guerre, rivoluzioni ed esperimenti politici radicali di destra e di sinistra. Inoltre, proprio a Est si sono affermati di recente movimenti e governi nazionalpopulisti che hanno liquidato l’ordine post-guerra fredda e le eredità liberali del 1989, finendo per proporsi come esempio anche a Ovest. Tuttavia, con la critica delle aporie e ipocrisie del sistema rappresentativo, l’insofferenza verso lo stato di diritto e l’invocazione di un rafforzamento del potere esecutivo, il rifiuto del sistema dei partiti come fonte di divisione e paralisi della volontà del “popolo”, sono tornati in circolazione materiali culturali tipici della fine dell’Ottocento e del primo Novecento, ancor prima che del periodo interbellico.

Seguendo le lucide considerazioni di Conway, Esteve Pardo, Romanelli e Cattani, resta da chiedersi se il Novecento europeo possa racchiudersi entro l’orizzonte della “democrazia”. Il continente uscito dalla Grande guerra diventò terreno di battaglia politico-intellettuale tra diverse idee di individuo e comunità, di rapporti tra stato e società. In questa contesa tra opposte rivendicazioni di sovranità popolare (o nazionale) che anima tutta la politica moderna sta il nucleo comune alle narrazioni di legittimazione del liberalismo, come della sua negazione (anche laddove, talvolta, presentata come ricerca di una “vera” o “nuova” democrazia). Il processo o l’assalto all’Europa liberale ottocentesca – spesso identificata con la “democrazia” – assunse forme estreme, e all’altezza del 1941 era possibile immaginare un vecchio continente che avesse del tutto archiviato istituti parlamentari e carte costituzionali. Poi, alla crisi e alla critica del parlamentarismo liberale – spesso fraintesa o denunciata come “crisi della democrazia” – seguì l’avvento di istituzioni liberaldemocratiche che presero forma anche grazie a tanti strumenti forgiati tra le due guerre dai loro nemici. Peraltro, la ricerca di inedite basi etiche e costituzionali del liberalismo contribuì a legittimare la democrazia come “stile di vita” che – a dispetto di ogni attesa – si radicò nell’apprendistato quotidiano dell’Europa occidentale postbellica. In quale misura e per quanto tempo quel che resta di quell’habitus democratico possa mitigare e contenere pulsioni illiberali e nazionalpopuliste, già dirompenti ovunque, non è però dato sapere. Il futuro appare un territorio più che mai incognito, oggi che “democrazia” e liberalismo tendono di nuovo a contrapporsi.

marco.bresciani@unifi.it
M. Bresciani insegna storia contemporanea all’Università di Firenze