Il tarlo-Matteotti: a cent’anni dall’omicidio

Studi e approfondimenti a cent’anni dall’omicidio

di Giovanni Borgognone

Il centenario del rapimento e assassinio del deputato socialista da parte di una banda di sicari fascisti ha generato una rinnovata produzione editoriale sulla sua figura. Non si è trattato solo di commemorazioni, la cui rilevanza non va in ogni caso sminuita, tanto più in tempi in cui si avverte una insufficienza di memoria pubblica che dia valore alla cittadinanza democratica. Dopo la meritoria pubblicazione della serie completa di Scritti di Giacomo Matteotti – grazie all’impegno scientifico di Stefano Caretti, curatore della raccolta (13 voll.) intrapresa dal lontano 1983 –, tornare a occuparsene sulla base di tale ricca documentazione è stato invece anche spunto storiografico per focalizzare l’attenzione sul socialismo riformista e più in generale sulla cultura politica della sinistra in Italia, che aveva finito col favorire una “rimozione” dell’eredità politica di Matteotti.

In questa prospettiva, si può prendere le mosse dal lavoro di Massimo L. Salvadori, che nel ripercorrere il pensiero e le vicende umane del socialista di Fratta Polesine si domanda perché, al di là del martirologio, la sua visione politica sia rimasta a lungo nell’ombra. E ne rintraccia la responsabilità, principalmente, nei pregiudizi provenienti dalla sinistra socialcomunista, a partire dalla sprezzante definizione coniata da Gramsci, già nell’agosto del 1924, di Matteotti “pellegrino del nulla”: la sua tragica fine, secondo il dirigente del Pcd’i, segnalava il fallimento della componente riformista del movimento operaio italiano, che non aveva saputo cogliere il senso della storia nel futuro trionfo rivoluzionario. Tale giudizio continuò a influenzare per decenni nell’Italia repubblicana l’incomprensione del suo profilo, tanto da ispirare in altre figure di grande rilievo, come Pietro Secchia e Giorgio Amendola, l’oltraggioso rimprovero a Matteotti di “rassegnazione” di fronte al fascismo.

Anche Federico Fornaro osserva come la memoria di Matteotti abbia pagato “un alto prezzo alla pregiudiziale antiriformista” della sinistra italiana, a partire dal mito della “rivoluzione mancata”, con riferimento alle occupazioni delle fabbriche del 1920, fra i comunisti, e persino nella visione del Nenni frontista del secondo dopoguerra. A parte il resoconto ammirato della sua azione politica e del suo pensiero offerto da Piero Gobetti (ora riproposto in volume, a cura di Paolo Bagnoli, Biblion 2024), si dovette attendere il 1970 per una rinata attenzione emersa dalla pubblicazione dei suoi Discorsi parlamentari in cui fu determinante il sostegno dell’allora presidente della Camera Sandro Pertini, iscrittosi nel 1924 al Partito socialista unitario. Sotto la guida di Matteotti, questo risultò il primo fra i tre partiti della sinistra lacerata alle elezioni del ’24, di cui il segretario denunciò i brogli nel coraggioso discorso in Parlamento che gli costò la vita. Fino agli ultimi giorni, aveva sempre insistito sulla necessità di tenere unita la classe lavoratrice italiana per dar forza a una compatta opposizione al fascismo, nella consapevolezza dell’urgenza drammatica di una lotta per ristabilire le libertà democratiche e civili sotto attacco. I socialisti massimalisti e le minoranze comuniste avevano coltivato invece la convinzione, di fatto velleitaria, che il capitalismo fosse giunto alla fase finale della sua esistenza. In realtà, come osserva Salvadori, a risultare minate “erano non le fondamenta della società capitalistica, ma le istituzioni di matrice liberal-democratica, le quali vennero sovvertite nell’Italia fascistizzata”.

Rimosso dalla cultura politica della sinistra (con poche eccezioni, come quella socialdemocratica di Giuseppe Saragat), il “tarlo-Matteotti” ha continuato, intanto, a “rodere la mente dei vecchi arnesi superstiti del fascismo, come degli attuali epigoni”. Così scrivono Marzio Breda e Stefano Caretti nel volume dedicato al “nemico di Mussolini” come “eroe dimenticato”. In tutta la storia dell’Italia repubblicana, fino ancora al nuovo millennio, nostalgici del Duce si sono esibiti “in nefandezze contro lapidi, statue e monumenti dedicati al martire”. Nel 1957, il punto del Lungotevere Arnaldo da Brescia dove Matteotti era stato rapito fu minato con cariche di tritolo da alcuni giovani militanti del Msi. Attentati e sfregi si sono susseguiti a Roma e in diverse altre città italiane, e ancora nel 2023, sul Lungotevere, sono state trafugate corone d’alloro e calpestati mazzi di garofani rossi. Allo stesso “tarlo”, per certi versi, è ascrivibile la discussa decisione della televisione pubblica di non trasmettere un monologo dello scrittore Antonio Scurati su Matteotti.

Non meno significativi i tentativi di minimizzare le responsabilità di Mussolini nel delitto, segnalando la mancanza della “pistola fumante”, alludendo a una complicità di sinistra con gli esecutori materiali dell’assassinio o avanzando la tesi della morte di Matteotti come infortunio, mentre la banda che lo aveva rapito gli avrebbe solo voluto “dare una lezione”. Con l’intento, sempre e comunque, di scagionare il Duce. In quest’ottica, è stata utilizzata anche la vicenda della Sinclair Oil, compagnia petrolifera statunitense che aveva pagato una maxi-tangente per la concessione del monopolio sul petrolio in Emilia e nel Mezzogiorno. Parte di quei fondi era servita ad alimentare le casse del “Popolo d’Italia”, il giornale diretto da Arnaldo Mussolini, fratello di Benito, il cui coinvolgimento, pertanto, sarebbe risultato meno diretto. Su tali indebiti rapporti tra decisioni pubbliche e interessi privati Matteotti aveva raccolto prove che ai dirigenti fascisti potevano far temere imminenti rivelazioni in Parlamento e sulla stampa libera. In realtà, questa pista non esclude, comunque, la centralità del Duce nell’assassinio del deputato socialista. Sul punto si può solo concludere, con Breda e Caretti, che “non c’è alcun dilemma, alcun giallo irrisolto, nel dramma di Giacomo Matteotti”.

I lavori storiografici più recenti convergono, inoltre, sulla rilevanza dell’impegno di Matteotti contro l’estremismo e il settarismo di sinistra, a favore di un’ostinata difesa delle conquiste democratiche. Al Congresso nazionale socialista di Roma, dell’ottobre 1922, egli disse a chiare lettere di non avere “pregiudiziali per nessun metodo, né transigente né intransigente” precisando di escludere da un lato la violenza come metodo e dall’altro il rinnegamento della lotta di classe in nome di un collaborazionismo “metodico e costante”. Nel ricostruire in tal senso la visione politica di Matteotti, è prezioso il contributo di Maurizio Degl’Innocenti sul riformismo del leader socialista che, già nel 1911, avvertì della necessità di tenersi lontani dal “puritanismo infecondo dell’intransigenza negativa” e dal “sogno dell’urto miracoloso che scrolla il mondo borghese”. Si doveva accettare, piuttosto, un percorso fatto di “vie ardue e complesse, piene di svolte e di insidie”: le uniche a consentire una “ricostruzione evolutiva della società”. Da tale concetto chiave, osserva Degl’Innocenti, derivava per Matteotti “l’attenzione alla formazione, alla competenza tecnica e alla capacità di adattamento all’ambiente” e, di converso, la repulsione per la demagogia e per il messaggio radicalizzato e semplificato che annuncia capovolgimenti totali. Al metodo, all’organizzazione, all’esperimento, e alla preparazione Matteotti associava, poi, quale specificità del socialismo, la lotta per la “libertà economica del lavoratore”. In quest’ottica – sottolinea Degl’Innocenti (prendendo spunto dalle Direttive del Partito socialista unitario italiano del 1923) – non si rivolgeva solo alla classe operaia, ma, in senso più generale, ai lavoratori. Distingueva dalla “guerra di classe” la “lotta di classe”, focalizzandola sulla difesa del lavoro che aveva contraddistinto il suo impegno nelle lotte bracciantili del primo dopoguerra in Polesine. Escludeva l’idea di una “armonia tra classi”, vedendovi una strategia per la conservazione dei privilegi dei gruppi dominanti: vi contrapponeva il concetto della “convivenza civile” e la possibilità di cooperazione tra classi e partiti diversi.

Il socialismo di Matteotti non rinnegava la patria, vista nelle peculiarità geografiche, storiche, economiche del paese al cui progresso intendeva contribuire, mentre accusava coloro che pretendevano di “avere il monopolio della Nazione” di essere in realtà esponenti di interessi affaristici e militaristici, “disposti a compromettere il vero interesse di tutti i lavoratori e i produttori del loro paese”. Al contempo, come sottolinea soprattutto Mirko Grasso, il leader riformista esprimeva una forte vocazione europeistica. Netto oppositore del nazionalismo, dall’impresa in Libia all’intransigente condanna dell’interventismo nella Grande guerra, Matteotti si faceva, invece, “portavoce delle istanze pacifiste e di libera collaborazione tra i popoli” (cfr. anche i discorsi Contro ogni forma di violenza appena riediti da Einaudi a cura di Davide Grippa). In tale prospettiva, egli auspicava che l’organizzazione socialista internazionale favorisse la formazione degli Stati Uniti d’Europa in grado di sostituirsi “alla frammentazione nazionalista in infiniti Stati turbolenti e rivali”. Anche per questo è un peccato che si sia dovuta attendere così a lungo la riscoperta del suo pensiero.

 

I libri

Marzio Breda, Stefano Caretti, Il nemico di Mussolini. Giacomo Matteotti, storia di un eroe dimenticato, pp. 280, € 18, Solferino, Milano 2024

Maurizio Degl’Innocenti, Giacomo Matteotti e il socialismo riformista, pp. 292, € 38, FrancoAngeli, Milano 2022

Federico Fornaro, Giacomo Matteotti. L’Italia migliore, pp. 232, € 19, Bollati Boringhieri, Torino 2024

Piero Gobetti, Matteotti, prefaz. e cura di Paolo Bagnoli, pp. 62, € 12, Biblion Edizioni, Milano 2024

Mirko Grasso, L’oppositore. Matteotti contro il fascismo, pp. 214, € 21, Carocci, Roma 2024

Massimo L. Salvadori, L’antifascista. Giacomo Matteotti, l’uomo del coraggio, cent’anni dopo (1924-2024), pp. 184, € 19, Donzelli, Roma 2023

Giacomo Matteotti, Contro ogni forma di violenza, a cura di Davide Grippa, Einaudi, Torino 2024

giovanni.borgognone@unito.it
G. Borgognone insegna storia delle dottrine politiche all’Università di Torino