Bisogna essere guerriere
di Mena Mitrano
Che cos’è una donna? Per Susan Sontag (1933-2004) questa domanda dà accesso alle pieghe più nascoste della vita associata. I puntelli simbolici atti ad assicurare anche il più superficiale senso di comunità sono tanto più invisibili quanto più insidiosi. Hanno uno strano modo di manifestarsi nelle consuetudini apparentemente innocue, come, per esempio, chiedere l’età a qualcuno, specie se donna.
Sontag scrisse i saggi raccolti in Sulle donne (a cura di David Rieff, trad. dall’inglese di Paolo Dilonardo, prefaz. di Benedetta Tobagi, pp. XII-204 , € 16,50, Einaudi, Torino 2024), tra il 1972 e il 1975, negli anni caldi del femminismo. Il plurale del titolo rende omaggio a quel tempo, evocando il soggetto unitario delle lotte del movimento: le donne come corpo politico non ancora attraversato dalle differenze, né dall’idea del genere come costruzione culturale. Ma affrontando la tematica femminista per eccellenza, la disparità tra uomini e donne, Sontag preferisce il sentiero meno agevole del pensiero critico agli argini delle ideologie. Attraverso la lente dell’invecchiamento o della bellezza la discriminazione tra i sessi si radica concretamente nel corpo, nel quotidiano asservimento del corpo a modelli di bellezza che obbediscono agli imperativi della società dei consumi, operanti all’interno di un sistema classista, oltre che sessista. Il soggetto donna appare allora composto di pezzi potenzialmente separati: il volto, come una tela su cui disegnare “un ritratto riveduto e corretto di sé stesse”, e il corpo, magro e dinamico in un mondo opulento e consumistico. Sontag si spinge oltre e mostra il lato più oscuro della legge dei “due pesi e due misure”.
L’invecchiamento, per esempio, non solo acuisce la discriminazione tra uomini e donne (le donne diventano sessualmente indesiderabili prima degli uomini) ma si trasforma, per queste ultime, in “una crisi inesauribile” durante tutto l’arco della vita, nell’incessante tentativo “accorato” di difendersi dalle ingiurie dell’età. La condanna arriva implacabile, e la rincorsa si risolve in una “sconfitta umiliante”, nell’umiliazione stessa di avere un corpo. Sontag ricostruisce un teatro della crudeltà in cui l’invecchiamento non è “una eventualità biologica” ma “un giudizio sociale”. La vera tematica della sua riflessione è allora la brutalità di fondo di un contratto sociale che manda i corpi al mercato, corpi giovani e tonici che incarnano la credibilità del comando a produrre di più, a consumare, a gettar via, a consumare.
Sappiamo dai suoi taccuini che Sontag ambiva a scrivere il saggio filosofico, un tipo di prosa che non fosse critica culturale o denuncia ma riuscisse a nominare e a descrivere il sentire del presente indagando i contenuti delle forme. Questo aveva fatto nel fortunato Note sul “Camp” (1966, in Contro l’interpretazione e altri saggi, Nottetempo, 2022) e questo fa in Fascino fascista, del 1975 e anch’esso incluso nel volume Einaudi. In controtendenza rispetto alla riabilitazione di Leni Riefenstahl, eminente propagandista del terzo Reich, a cultrice della bellezza, Sontag esamina i suoi ritratti fotografici del 1973 del popolo Nuba e vi riconosce gli elementi dell’estetica visiva fascista di film come Il Trionfo della volontà (1935) e Olympia (1938): i corpi che assumono forma e diventano disegno, l’esibizione dell’attività fisica o del coraggio e la vittoria del più forte sul più debole, il controllo, la sottomissione, la resistenza al dolore, la seduzione della morte. Questo saggio fece scattare la polemica con la poetessa e critica femminista Adrienne Rich, la quale in una lettera alla “New York Review of Books” la richiamò all’ordine accusandola di non aver esaminato le radici del fascismo nei “valori patriarcali”. Quello che sfuggiva a Rich è che Sontag stava dialogando con i maggiori pensatori del suo tempo sull’analisi del potere. Stava leggendo Michel Foucault, per esempio, il quale proprio nel 1974, a proposito del film di Liliana Cavani Il portiere di notte, si chiedeva perché il nazismo fosse il referente assoluto dell’erotismo, e si interrogava sull’amore del potere – comment aimer le pouvoir? Sontag riprende quella domanda tracciando la rotta di un fascismo che si distanzia dalla sua manifestazione storica, cambia geografie e si trasforma plasticamente nel mondo a lei contemporaneo, erotizzandosi nella comunità omosessuale attraverso la teatralizzazione della sessualità nelle pratiche s/m.
Nella famosa (e punitiva) intervista a “Salmagundi”, che chiude il volume, uno dei due intervistatori (Robert Boyers, oggi professore allo Skidmore College) vuole costringerla a discettare sul pensiero dell’ex-marito, il sociologo Philip Rieff. Sontag si difende con mini-incursioni nella storia della letteratura e del pensiero. Gli elenchi di nomi – Joyce, Rimbaud, T. S. Eliot, George Gissing, Wyndham Lewis, Henry James, Dostoevskij, Schoenberg, e tanti altri – offerti a chi esige solo una distinzione tra ciò che è “reazionario” e ciò che è “radicale”, è un modo per far capire che “l’unica intelligenza degna di essere difesa è quella critica, dialettica, scettica e non semplicistica”. Chi parla è una donna che s’è conquistata la libertà leggendo, attraverso il rapporto con la parola, “lavorando con le idee”, come direbbe con un tocco di understatement la teorica bell hooks, altra carismatica statunitense. Di qui la bruciante attualità di questi saggi messa in risalto nella splendida Prefazione di Benedetta Tobagi.
filomena.mitrano@unive.it
M. Mitrano insegna letterature anglo-americane all’Università Ca’ Foscari di Venezia
Una scrittura nutriente
di Silvia Nugara
Nel 2018-2019, la casa editrice Nottetempo ha dato alle stampe (sempre con la traduzione di Paolo Dilonardo) i due volumi dei diari e taccuini di Susan Sontag curati dal figlio David Rieff: Rinata (cfr. “L’Indice” 2019, n. 1), dedicato agli anni della giovinezza dal 1947 al 1963, ha avuto una seconda edizione nel 2024; La coscienza imbrigliata al corpo va dal 1964 al 1980 coprendo gli anni degli scritti ora raccolti da Einaudi in Sulle donne. Nottetempo ha poi riproposto anche altre opere della scrittrice quali Malattia come metafora e L’aids e le sue metafore (2020, cfr. “L’Indice” 2021, n. 3), L’amante del vulcano (2020), Davanti al dolore degli altri (2021), Contro l’interpretazione (2022) e Sotto il segno di Saturno (2023).
Per entrare nei meandri di un doppio cantiere, quello della costruzione delle sue opere e quello del suo percorso di formazione intellettuale, rimane fondamentale la lettura dei diari di Sontag, che non forniscono chiavi interpretative, contenuti reconditi o retroscena delle sue opere – sarebbe una contraddizione per l’autrice di Contro l’interpretazione – ma rivelano piuttosto un metodo, una disciplina che è tanto di lavoro quanto di vita perché in Sontag l’appetito di vita e di conoscenza si alimentano reciprocamente come lei stessa scrive nel secondo volume: “Quando leggo ho sempre l’impressione di mangiare. E il bisogno di leggere assomiglia a una fame terribile e furiosa”. La scrittura tiene il tempo, il ritmo, il passo di questa fame.
Attraverso appunti, impressioni, esperienze, i diari rendono conto di un circuito infinito di desiderio. È una dialettica inesauribile tra nutrimento e rielaborazione: “Nella vita non voglio essere ridotta alla mia opera. Nell’opera non voglio essere ridotta alla mia vita. La mia opera è troppo austera. La mia vita è un crudo aneddoto”. Ecco cosa sono i diari: una sintesi, un progetto, il palinsesto di un’esistenza molto articolata che fa della scrittura lo strumento principale di messa in relazione tra corpo e mente. È una scrittura che assume diverse forme: in primis il frammento, seguendo in questo una tradizione e un’estetica vicine ad autori come Novalis o Barthes; poi appunti, citazioni, immagini catturate nei viaggi o nella vita quotidiana, situazioni che l’hanno colpita e che potrebbe espandere in uno scritto a venire; liste di parole apprese, di espressioni precise da utilizzare in un testo in preparazione, molte delle quali in francese, persone incontrate, luoghi visitati, film visti e da vedere, libri letti e da leggere, cose amate e cose odiate, comportamenti da modificare e infine la riflessione o la narrazione analitica. Le pagine di quest’ultimo tipo restituiscono il suo rapporto con la scrittura e lo studio, la relazione complessa con la madre o il tormentato rapporto con Carlotta Dal Pezzo.
Ci sono poi le note di viaggio che finiranno in testi come Viaggio a Hanoi (Bompiani, 1969) o Progetto per un viaggio in Cina (in Io, eccetera, Einaudi, 1980), a dimostrazione di quanto i diari si situino sia a monte sia a valle dei suoi saggi facendo tesoro della ricezione della sua opera, ma costituendo anche il ricettacolo di sviluppi ulteriori. Si vedano anche gli appunti preparatori a Notes on Camp la cui scrittura si situa a cavallo dei primi due volumi del diario. Infatti, il diario è per Sontag uno strumento di pensiero, di presa di coscienza di sé e del proprio posto nel mondo. È un gesto che Foucault avrebbe chiamato “ethopoietico” cioè di costruzione del sé attraverso l’enumerazione di principi d’azione o obiettivi da raggiungere. La scrittura è il ponte tra il precetto e la sua incorporazione, perché la vita non assume una forma finché non interviene la scrittura ad attribuirgliela. In sintesi, la scrittura diaristica è il mezzo sia per conoscersi sia per trascendersi perché in definitiva è quello il vero progetto di Sontag, sviluppare tramite l’esperienza un metodo critico capace di farsi patrimonio pubblico.
silvia.nugara@unito.it
S. Nugara insegna linguistica francese all’Università di Torino