di Alessandro Roccati
dal numero di dicembre 2015
L’inaugurazione del rinnovato Museo egizio di Torino ha coinciso con l’Expo di Milano. Così avvenne anche nel 1898 quando, in concomitanza con l’Esposizione generale italiana a Torino, Ernesto Schiaparelli presentò un nuovo allestimento delle collezioni di cui era diventato direttore quattro anni prima. Oggi come allora sembra valere l’assioma dell’isolamento dell’Egitto antico: una utopia e acronia che si trovano intrecciate nella concezione di molte collezioni egizie, condizionandone le ambientazioni e falsando così la corretta acquisizione storica di un patrimonio straordinario.
A Torino, l’ultimo rifacimento del “famoso” Museo egizio ha comportato onerose opere edilizie. Il secentesco palazzo che continua a ospitarlo nel cuore della città è stato sottoposto a una razionalizzazione degli spazi, così da permettere una fruizione delle collezioni a favore di un pubblico numeroso, non specificamente preparato, sì da rendere ancor più questa istituzione un polo d’attrazione in una città ricca di offerte culturali. L’architetto Aimaro Oreglia d’Isola ha dovuto destreggiarsi tra i vincoli imposti da un edificio storico, dove già erano intervenuti gli architetti Giuseppe Maria Talucchi e Alessandro Mazzucchetti nell’Ottocento, salvandone i significativi apporti. Il sostegno finanziario pluridecennale della Compagnia di San Paolo si è rivolto all’intero edificio, comprendendo la parte occupata dall’Accademia delle Scienze, con la quale gli spazi sono stati più utilmente ripartiti, ripristinando così la contiguità di due istituzioni che hanno interagito fin dalle origini. La Galleria Sabauda, trasferita non senza polemiche nel Palazzo Reale, ha ceduto i suoi spazi ai piani alti al Museo egizio, compensandone così la perdita delle sale storiche, ora assegnate all’Accademia delle Scienze. Pensato su misura per i visitatori in continuo aumento, il rinnovato Museo egizio intende ugualmente assecondarne la curiosità ed emotività in favore di un paradigma dell’esotismo (nonché accrescendo le entrate pecuniarie). Vi si confà l’apparato didascalico espresso in varie lingue (oltre all’italiano e all’inglese anche in arabo, lingua dell’Egitto odierno), con cui si enfatizza il primato della civiltà faraonica suggerendo una valenza politica attuale. Si raggiunge quindi il risultato di una esposizione che vuole svincolarsi da quella precedente, anche alleggerendo il materiale in visione, per dare spazio all’effetto prodotto dai pezzi esposti in vetrine dove trionfano le pareti di cristallo, e mettendone in risalto i pregi dei restauri cui sono stati sottoposti nel corso di molti anni, beneficiando dei lungimiranti studi condotti nell’ultimo secolo.
Il percorso di visita del nuovo museo
Il senso di visita procede dall’alto verso il basso dell’edificio, seguendo un itinerario approssimativamente cronologico, dal periodo predinastico fino all’annessione dell’Egitto all’impero romano. A livello del sottosuolo, dove sono sistemate la biglietteria e la libreria, trova invece posto una introduzione alla genesi del Museo, particolarmente significativa poiché si salda alla storia stessa dell’egittologia, nonché dell’Italia; una storia evocata attraverso figure salienti, documenti originali e mobilio d’epoca, che evidenziano l’unicità della collezione torinese nel consentire una serie di chiavi di lettura della civiltà egizia, a cominciare dalla lista di faraoni e dagli archivi attinenti alle loro sepolture.
Unitamente alle coordinate temporali, e in linea con l’allestimento precedente, sono le coordinate spaziali a suggerire il raggruppamento dei reperti, sistemati a volte per tipologia ma quando possibile per contesti, secondo le attuali esigenze di studio. Un compendio non comune ne è dato dalla suppellettile della tomba dell’architetto Kha, vissuto intorno al 1400 a.C., il cui cospicuo arredo è diventato ora tema di una delle maggiori sale, dove il risalto dato ai singoli manufatti non evita tuttavia una sensazione di smembramento e di ripetitività. Un effetto chimerico di suggestione è alla fine ricercato al piano terra, nella Galleria dei Re, come la chiamò Jean François Champollion, il magnifico Statuario la cui scenografia non manca di evocare il successo delle ambientazioni faraoniche nella produzione cinematografica.
Un’operazione chirurgica ha trasformato dappertutto la solarità dell’Egitto in regno della luce (elettrica), sacrificando per un effetto alquanto claustrofobico la luminosità naturale di alcune grandi sale, che era un pregio dell’edificio storico. Il proposito sembra essere stato quello di ricreare un’aura fantastica, se non tenebrosa, secondo un’antica visione dell’Egitto come “terra dei morti”, non immune dai pericoli di un’inconsueta avventura (si notino gli avvertimenti per “persone sensibili”). Eppure non mancano in questo nuovo allestimento le novità di rilievo, a cominciare dalla collezione privata di Carlo Vidua, prestata dalla città di Casale, per finire con i reperti della Missione archeologica italiana diretta da Carlo Anti dopo la morte di Schiaparelli, che procurò una messe di preziosi e vari oggetti da Tebtuni nel Faium. Si sono rimessi insieme i pezzi egizi del seicentesco, romano Gabinetto delle curiosità del gesuita Atanasio Kircher, che aveva raccolto antichità egizie dal suolo di Roma; è stato rimodellato lo straordinario “papiro delle miniere”, arrivato con la collezione di Bernardino Drovetti nel 1824, mediante un delicato intervento eseguito presso il laboratorio dell’Archivio di stato, rendendone visibili i due lati; si è allestita un’intera parete di una saletta esponendo i lacerti di una tela contenente uno tra i più antichi esemplari di Libro dei morti, ricomposta da minuti frammenti scoperti da Schiaparelli nella Valle delle regine. Inoltre, nella sala dedicata alla Nubia una vetrina contiene notevoli prestiti da collezioni di Pisa, Berlino e Boston.
Tale sistemazione “nucleare” è solo parzialmente si riflette nel sontuoso catalogo, che offre un’illustrazione di modello tradizionale e non una guida all’esposizione. Nell’impianto si avverte peraltro la carenza di una revisione editoriale, e alcune novità non presagiscono svolte più audaci, mancando anche la tradizionale sinergia con l’Accademia delle Scienze. Invano si cercheranno nelle sale (e nel catalogo) alcuni notevoli monumenti che vengono dagli scavi di Schiaparelli e che spiccavano nella “vecchia” esposizione: il naos di Sethi I, un gioiello di restauro il cui studio è durato decenni; una tomba ipogea di Gau el-Kebir, che conserva ancora pezzi degli imponenti sarcofagi e delle iscrizioni parietali dipinte, anch’essa ricostruita a cura della Soprintendenza speciale; la facciata di una tomba (mastaba) presso la Grande Piramide a Giza, che riproduceva il monumento all’atto della scoperta, imponente testimonianza dell’età menfita; neanche disponibili sono le pitture copiate da un’egittologa francese dalla cappella dell’architetto Kha (lo stesso della tomba intatta) a Deir el-Medina, offerte come prestito permanente in omaggio al museo torinese.
Nuovi scenari
Nel frattempo, la storia dell’Egitto non si fa (più) solo con l’archeologia del suo territorio e se ne misura il contributo in un più ampio contesto geografico. Una straordinaria apertura sull’orizzonte africano si era avuta con l’acquisizione della cappella thutmoside di Ellesija, rimasta nello stesso posto della collocazione precedente, con l’aggiunta di alcuni modellini ottocenteschi di templi della Nubia, prima nei magazzini. Ma altri scenari si stanno disegnando in diverse direzioni e occorre quindi anche restituire nuovi significati a pezzi o insiemi per ora relegati in zone opache, che sono già nelle disponibilità del Museo. Il fine è dunque quello di superare l’autoreferenzialità della presentazione e perfezionare l’allestimento presente, che in più tratti appare un po’ frettoloso, in vista particolarmente del prossimo bicentenario dalla fondazione del Museo. La bravura del giovane direttore Christian Greco è sicuramente un fattore di ottimismo, non solo per l’introduzione di artifici tecnologici ai più diversi livelli, bensì per i fecondi contatti con altre istituzioni e collezioni museali a livello nazionale ed europeo, come quelle che condividono con quella torinese elementi comuni, sì da aprire insoliti sviluppi e aspettative, tra cui la ripresa di scavi archeologici in Egitto. La Fondazione ha acquisito dalla precedente Soprintendenza una pregevole biblioteca di lavoro, che ora necessita di un rilancio. Peraltro, la rapida e imprevedibile trasformazione delle tecniche di ricerca e documentazione potrà consentire modalità di studio diverse da quelle del passato, seppure in continuità con esse, da cui attingere stimoli di rinnovamento adeguati al prestigio raggiunto nel tempo dal Museo egizio come polo di ricerca.
ale_ro41@yahoo.it
A Roccati è professore emerito di egittologia all’Università di Torino