Una buona vita che si autodetermina
recensione di Simone Pollo
dal numero di giugno 2018
Marzio Barbagli
ALLA FINE DELLA VITA
Morire in Italia
pp. 351, € 20
il Mulino, Bologna 2018
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Per gli esseri umani la morte è un fatto comune e quotidiano. Il pensiero della nostra morte si affaccia spesso in vari modi nelle nostre giornate, e la scomparsa di persone vicine o sconosciute segna le nostre vite. Il primo incontro che in giovane età un essere umano fa con la morte di un congiunto (o di un animale caro) è considerato da sempre un momento di passaggio e di conoscenza di un fatto della vita che muta il proprio modo di sentire in modo irreversibile. Una cosa, infatti, è immaginare la morte, altra cosa è averne esperienza. Questo è vero per la dipartita delle persone che ci sono vicine e vale ovviamente per la propria morte, ma vale anche per il modo in cui la fine della vita è concettualizzata e pensata. E proprio su quest’ultimo punto si dipana il lavoro del sociologo Marzio Barbagli nel suo Alla fine della vita. Morire in Italia. Barbagli si interroga, infatti, sulla reale consistenza di alcune idee circa il modo in cui gli esseri umani, e in particolare gli italiani, farebbero esperienza della morte. Più specificamente, l’autore si interroga sulla verità di tre presunte trasformazioni fra il modo in cui la morte sarebbe stata vissuta nel passato e come essa verrebbe sperimentata oggi. A detta di chi afferma la realtà di questi cambiamenti (non solo nel discorso di senso comune, ma anche nel dibattito colto e accademico) oggi la morte sarebbe nascosta e avverrebbe in luoghi non accessibili. In secondo luogo, in passato il rapporto fra il curante e il moribondo sarebbe stato schietto e sincero, mentre oggi i medici tenderebbero a nascondere al paziente la verità sulla sua sorte. Infine, le emozioni e le reazioni di chi resta sarebbero oggi represse e occultate, in confronto a un passato nel quale il lutto e i sentimenti che lo accompagnavano sarebbero stati pubblicamente espressi e ritualizzati.
Per verificare la correttezza di queste affermazioni Barbagli affronta anzitutto una ricostruzione storica nei modi del morire e nella “gestione” della morte. È un percorso affascinante e documentato che mostra come quelle convinzioni circa l’esperienza attuale del morire siano luoghi comuni che non corrispondono alla realtà. Descrivere quale sia la situazione contemporanea è, d’altra parte, il secondo compito che si dà Barbagli nel volume e che assolve con una mappa (anche questa informata da una ricca base di dati) di come si muoia oggi, in quali contesti e con quali relazioni fra chi termina la vita e quanti lo assistono. Ci sono state sicuramente trasformazioni nei modi di morire e nelle emozioni connesse a questo evento, ma questi cambiamenti non hanno prodotto un silenzio sulla morte e un suo occultamento. A questo proposito un punto, in particolare, emerge dall’analisi di Barbagli e merita di essere sottolineato. Non corrisponde alla realtà dei fatti l’idea che in passato la morte fosse al centro di comunicazioni sincere e aperte, mentre oggi essa sarebbe oggetto di menzogna. La cultura dei medici e la religione cristiana, infatti, hanno per secoli avallato un atteggiamento paternalista orientato a proteggere malati e moribondi da una verità che erano ritenuti troppo deboli da sostenere. È negli ultimi decenni, invece, che (almeno nelle società occidentali), il paternalismo medico è stato messo in discussione. La concezione di un medico autorevole, autorizzato ad agire per il bene del paziente senza interrogarne la volontà, è stato analiticamente criticato all’interno di quel campo di riflessione che va sotto il nome di bioetica. In alternativa a tale visione è emersa una nuova concezione della relazione di cura basata sull’idea che il paziente, anche nella fragilità della malattia, sia un individuo autonomo nel pieno diritto di autodeterminarsi e capace di esercitare scelte competenti e informate. Grazie anche alla traduzione in legge di questo mutamento di paradigma, lo spazio della cura è divenuto sempre più un luogo di scelta consapevole per gli esseri umani. In molti paesi la costruzione di uno spazio di autodeterminazione per il paziente nelle relazioni di cura è arrivata a riguardare anche la fine della vita, spingendosi fino a riconoscere il diritto a pratiche come il suicidio assistito e l’eutanasia. In questo campo la società italiana sconta un considerevole ritardo rispetto ad altre e la recente approvazione della legge sulle cosiddette “Dichiarazioni anticipate di trattamento” rappresenta un segnale positivo in tale senso, ancorché minimale e tardivo.
Se c’è una novità nel modo in cui oggi muoiono gli esseri umani, almeno in Occidente, è proprio l’avanzamento dell’idea che questo momento non debba essere necessariamente lasciato al caso o alle decisioni di altri, ma che vivere una vita buona possa implicare anche l’avere voce e autorità su come essa termina. Non solo – come efficacemente ci mostra Barbagli – non c’è stato alcun “regresso” nelle esperienze del morire nella nostra società, ma, al contrario, possiamo assistere a un avanzamento morale in questo ambito, nella misura in cui queste esperienze sono sempre più oggetto di riflessione e autodeterminazione degli esseri umani.
simone.pollo@uniroma1.it
S Pollo insegna bioetica all’Università La Sapienza di Roma
Una signora meno capricciosa e imprevedibile: sul numero di giugno 2018 anche Arnaldo Bagnasco commenta Alla fine della vita di Marzio Barbagli.