Bellezza, morte e malattia: il cannibalismo rituale fra corpo e immagine
di Francesca Serra
dal numero di marzo 2015
Tra il corpo e l’immagine, si consuma da sempre un rito di cannibalizzazione. Qualcosa deve essere mangiato e sacrificato, sull’altare dell’immaterialità. Per questo dietro ogni immagine, soprattutto se sublime, s’intravedono i segni della violenza rituale consumata in nome di quella sovrumana spinta verso l’alto. Dietro la perfezione dell’oltremondo fa sempre capolino il cadavere di chi ha pagato il prezzo dello scambio tra carne e figura: lo scambio, mai innocente, tra realtà e ideale.
Allo stesso modo, dietro ogni grande pittore s’intravede l’ombra di un medico. Colui che si piega sul corpo ancora vivente, ma destinato in breve a non esserlo più: tastandogli il polso, assistendolo nella sua trasformazione dalla vita all’arte, attraverso la morte. Tutti sappiamo quanto sia stretto il legame tra storia dell’arte e medicina; tutti sappiamo che i grandi artisti rinascimentali commerciavano con i cadaveri dalla mattina alla sera. O meglio soprattutto di notte: il momento migliore per rovistare nell’oscurità del corpo umano.
Era in gioco la conoscenza anatomica, certo, che si raffinava e precisava con i progressi medici. Ma come non vedere davanti a noi il cumulo di morti, per esempio, necessari a dipingere la Cappella Sistina: gli scheletri che, come in una radiografia, si palesano dietro i corpi dipinti ed elevati fino a lassù. Quanta carne tagliata e macellata serve per creare una levigatezza immune allo scorrere del tempo? E ancora, proseguendo con le domande: chi era quell’adolescente il cui corpo senza vita Michelangelo Buonarroti ebbe tra le mani, quando appena diciassettenne intagliò il suo imberbe, levigatissimo crocifisso che si trova nella chiesa di Santo Spirito a Firenze?
Oppure, saltando avanti di qualche secolo e venendo quindi al nostro argomento, chi era la donna che John Everett Millais ebbe sotto gli occhi mentre dipingeva il celeberrimo quadro dedicato alla morte di Ophelia? Nel secolo e mezzo che ci divide dalla sua prima apparizione in pubblico, l’immagine preraffaellita dell’Ophelia shakespeariana ha fatto in tempo a diventare una vera e propria icona della modernità. Alla Tate Gallery, dove il dipinto è conservato, un gran numero di visitatori del museo si porta via una cartolina dell’Ophelia di Millais, da appendere sul frigo o nella camera dei bambini.
La donna che si prestò come modella per il quadro, non era morta: si chiamava Elizabeth Siddal e sarebbe diventata prima l’amante poi la moglie di un altro dei più famosi membri della Confraternita dei preraffaelliti, fondata nel 1848, Dante Gabriel Rossetti. Elizabeth, detta familiarmente Lizzie, non era morta. Però neanche si poteva definire molto in salute. Diciamo che era una semimorta, come del resto appare anche l’Ophelia di Millais, con gli occhi semiaperti come fosse una sonnambula. Era, insomma, una di quelle “grandi moribonde” che l’Ottocento ha conosciuto a bizzeffe. Si pensi soltanto alla più famosa di tutte: Marie Duplessis, la cortigiana a cui Dumas si ispirò per scrivere La dama delle camelie.
Marie era pressoché coetanea di Elizabeth, nata appena cinque anni prima di lei, nel 1824: morirà nel 1847, quando ancora Lizzie lavorava come commessa presso una cappellaia dalle parti di Leicester Square, a Londra. Un mestiere simile a quello che anche Marie aveva provato a intraprendere, appena arrivata a Parigi dalla provincia, prima di dedicarsi alla professione infinitamente più redditizia del meretricio di lusso. La dama delle camelie viene pubblicato nel 1848. Nel 1849 il pittore preraffaellita Walter Howell Deverell, in cerca di una modella per una tela che rappresentava una scena della Dodicesima notte di Shakespeare, viene indotto da un amico a dare un’occhiata a una commessa alta, dai capelli rossi che lavorava in un negozio di cappelli a Cranbourne Street. Lizzie aveva allora vent’anni e da quel fatidico momento iniziò la sua carriera di grande moribonda.
Sollevata dalla mano del destino dal suo grigio tran tran di ragazza qualunque, entra nel caleidoscopico mondo dell’arte. Dalla parte sbagliata però: quella dei cadaveri che pagano il prezzo dello scambio tra carne e figura. I membri della Confraternita impazziscono per lei: hanno trovato la loro Beatrice, la bellissima donna morta che li guiderà fino in paradiso. Tutti le girano intorno, la corteggiano, attratti come da una calamita. Inizia allora la complessa opera di passaggio dal corpo al mito: inizia la cannibalizzazione di Lizzie Siddal che si trasforma pian piano in un oggetto d’arte. Mentre nella realtà diventa sempre più malata, più drogata ed evanescente. Fa la sua parte di moribonda alla perfezione. Senza morire subito, ma offrendo per anni lo spettacolo della più estenuante e artistica morte femminile a cui la Londra bohémienne dell’epoca potesse sperare di assistere.
Per non essere da meno di Parigi, che poco prima aveva assistito a quella di Marie Duplessis: già con un piede nella fossa, priva di forze, La dama delle camelie si faceva trascinare a teatro, dove una folla di giovani si apriva al suo passaggio, per rendere omaggio alla bella morta che cammina, seminando un brivido ultraterreno. Mentre a casa l’aspettava uno stuolo di dottori, insieme a un pittore intento a ritrarla da semiviva; uno studente dell’École des beaux arts che “adorava la donna moribonda come fosse una di quelle sante ritratte nei vecchi messali”. Era la sorte delle grandi moribonde, quella di avere un medico alle spalle e un pittore di fronte: Edgar Allan Poe non aveva forse ragione, quando nel Ritratto ovale raccontava di una bellissima donna “uccisa” dal quadro che la doveva immortalare?
D’altronde Poe era uno dei massimi esperti di belle donne morte nell’Ottocento; nonché uno dei più famosi consumatori di laudano, un composto di alcol e oppio che teneva a bada la depressione, ma nel contempo distruggeva la mente e il corpo. Anche Lizzie Siddal era drogata di laudano. E sfornava figli tutti morti. Come se, una volta uscita dalla porta del negozio di cappelli ed entrata nei panni di Ophelia, non le restasse che confondersi con le cose esanimi. La musa, diceva Étienne Gilson, ha qualcosa a che fare con il desiderio di santificazione. Ma esattamente che cosa viene santificato? La bellezza femminile o l’artista in grado di sottrarla al tempo e regalarle l’immortalità? Ma poi chi l’ha detto che si tratti davvero di un regalo? E non invece di un potente veleno, che facendo uscire la musa dal suo tempo vivo e pulsante, la esilia nel gelido regno dei morti?
Elizabeth Siddal è la più nota, ma non certo la sola delle muse preraffaellite: Rossetti le chiamava le stunners. Donne di eccezionale bellezza, glamour e carisma. Maria Zambaco, per esempio, la modella preferita da Edward Burne-Jones, oppure Jane Burden, la moglie di William Morris, ritratta come Proserpina dallo stesso Rossetti. Questa lista di stunners andrebbe messa in relazione con un altro gruppo di donne altrettanto famose nella seconda metà dell’Ottocento. Perché altrettanto legate alla spettacolarizzione del corpo femminile, sospeso tra la vita e la morte: mi riferisco alle pazienti di Jean-Martin Charcot, il celebre medico francese delle malate di isteria che fu maestro di Freud e tra i più influenti scienziati della sua epoca.
Alcune delle sue pazienti diventarono delle vere e proprie star della medicina, delle autentiche muse del loro taumaturgo-inventore, che con nomi d’arte si chiamavano Blanche, Augustine, Geneviève. Spesso coetanee delle stunners preraffellite, le grandi isteriche erano anch’esse grandi moribonde, in commercio perpetuo con il mistero dell’aldilà. Jean-Martin Charcot, che era anche pittore dilettante, non si stancava mai di metterle in posa, di disegnarle e fotografarle. In definitiva, erano le sue modelle: pure lui le ha prelevate dal nulla, create e cannibalizzate. Per lo spettacolo della Salpêtrière, l’ospedale parigino che diventò teatro pubblico della follia muliebre. Il palco su cui ogni giorno andava in scena la demenza di Ophelia e la sua morte.
Se le isteriche della Salpêtrière erano sorelle delle muse preraffaellite, Charcot era coetaneo a sua volta di Dante Gabriel Rossetti: il medico dietro il pittore, che addirittura si confonde con lui quando ricorre al disegno per ritrarre e immobilizzare le sue agitatissime muse. Fino a diventare un’unica persona. Dedita in fondo a un’unica arte, che da secoli non ha mai smesso di prosperare: l’imbalsamazione femminile.
francesca.serra@gmail.com
F Serra insegna letteratura italiana all’Università di Firenze