Eliminare i presupposti dell’omo-lesbo-trans-fobia
di Federico Zappino
dal numero di febbraio 2016
Dell’attuale dibattito intorno al gender, ritengo che sia troppo generoso definirlo “dibattito”, o almeno se con questo concetto si suole intendere lo scambio, anche conflittuale, di idee e opinioni contrastanti, e non un coacervo di posizioni dogmatiche o di meri interessi da tutelare: tanto le prime quanto i secondi, infatti, per definizione, non possono contemplare alcun “dibattito”, poiché esso è ciò che precisamente fa scricchiolare ogni dogma e mette in pericolo ogni interesse. Non è da sottovalutare, al contempo, quanto questo “dibattito” si stia distinguendo per forme di attacco in parte inedite; soprattutto, non è da sottovalutare il suo potere nell’innescare meccanismi di difesa per certi versi spiazzanti, o tali da mettere in luce divergenze tutt’altro che minime tra le file dei vari attori sociali accusati di farsi fautori, a vari livelli, della “teoria del gender” o dell’“ideologia del gender”. Sintagmi, questi, la cui proliferazione cela due opposte fazioni e che sono usati da tali fazioni o in funzione criminalizzante o in funzione difensiva.
La criminalizzazione della teoria del gender
Tra coloro che usano tali espressioni in funzione criminalizzante è innanzitutto da menzionare chi le ha coniate, ossia la chiesa cattolica. Già in occasione della quarta Conferenza mondiale dell’Onu sulle donne, tenutasi a Pechino nel 1995, le gerarchie vaticane denunciarono infatti come dietro all’impiego del concetto di gender, all’interno dei resoconti programmatici, si celassero ambigui propositi di legittimazione sovranazionale della distruzione della naturalità dei ruoli e dei desideri maschili e femminili e della relazione tra l’uomo e la donna. In particolare, la nutrita delegazione vaticana a Pechino da un lato rilevò la totale assenza di temi ritenuti fondamentali, quali l’identità e la dignità maschile e femminile, la sintonia tra sesso e sessualità, il matrimonio e la famiglia come cellule fondamentali e naturali della società; dall’altro, denunciò come “ideologico” il modo in cui si trattarono altri temi, quali l’eguaglianza delle opportunità tra uomini e donne, l’aborto o l’omosessualità (si veda l’esaustiva relazione La IV Conferenza mondiale dell’ONU sulla donna, Beijing 1995, reperibile sul sito Pontificio Consiglio per i Laici). Non è difficile scorgere i prodromi dell’odierna messa in stato d’accusa del gender dietro all’aggettivo “ideologico”, con cui la delegata Pilar Escudero de Jensen definì il modo in cui tali questioni vennero affrontate. A dover essere precisato, tuttavia, è che la nozione di gender non venne certo coniata nell’ambito di quella Conferenza: ciò che in italiano traduciamo con “genere” è una categoria analitica in uso nelle scienze sociali dagli anni settanta, ritenuta maggiormente in grado – rispetto a “differenza sessuale” – di render conto del carattere storico e culturale delle identità maschili e femminili, nonché delle forme del desiderio e della sessualità (sia di quelle egemoniche, sia di quelle minoritarie), attorno al quale convergono quasi unanimemente, ormai, varie branche del sapere.
Nel 2003, i sospetti nei riguardi del gender, da parte del Vaticano, trovano una più ampia articolazione nel Lexicon. Termini ambigui e discussi su famiglia, vita e questioni etiche, curato dal Pontificio consiglio per la famiglia. In questo imponente compendio, tra le altre cose, la chiesa mette all’indice il testo di Judith Butler, Gender Trouble (1990; trad. it. Questione di genere, Laterza 2013), in quanto esplicitamente accusato di “attentare all’umanità”. È bene sapere che Butler non è certo l’unica a essersi occupata di genere, né l’unica a essere stata bersaglio del Vaticano: resta pur sempre, tuttavia, la pensatrice che le sue gerarchie hanno definito nientemeno che “papessa” della teoria del gender. Non sarà un caso. In Gender Trouble, come in opere successive, la filosofa elabora una “teoria del genere” (facendo più volte ricorso a questa formulazione) che non si limita a render conto del modo in cui la storia o la cultura plasmano le identità e i desideri maschili e femminili sullo sfondo invariabile delle differenze biologiche, ma eleva lo stesso gender a cornice disciplinare attraverso cui ha luogo la produzione e la normalizzazione del maschile e del femminile, e, dunque anche il significato di ciò che è maschile e di ciò che è femminile.
A essere messa in crisi dalla teoria del gender di Butler, in altri termini, è l’incontestabilità del significato naturalmente dato non solo dell’identità, ma anche della stessa differenza sessuale, che invece la classica distinzione socioantropologica tra sesso (biologico) e genere (culturale) mantiene inalterata. Joseph Ratzinger, in particolare, comprese bene la raffinata complicazione introdotta da questa specifico modo di concettualizzare il gender: stando a questa teoria, l’intelligibilità autoevidente del corpo sessuato, e della differenza tra i corpi sessuati, perderebbe ogni radicamento ontologico; con essa, lo perderebbe anche il modo in cui l’eterosessualità sarebbe intesa come modalità privilegiata di relazione (in quanto funzionale al consolidamento della differenza). Il gender, proprio perché luogo di produzione e normalizzazione di corpi, identità e desideri maschili e femminili, diventa anche il luogo da cui contestare questa produzione e questa normalizzazione. Appare evidente, dunque, che tale teoria non è neutra, né neutrale, bensì include posizioni critiche e politiche – definite “ideologiche”, e, secondo molte accezioni del concetto di ideologia, effettivamente tali – che mirano a innescare specifici processi di trasformazione all’interno dell’ordine simbolico e sociale etero-normativo e sessista da cui dipendono i privilegi e le oppressioni di genere e sessuali, e che la chiesa cattolica ha molti interessi a preservare.
Non solo la chiesa cattolica, a dire il vero. A muovere le accuse più feroci nei confronti della teoria, e dell’ideologia, del gender sono oggigiorno le sue diramazioni nei partiti e nell’associazionismo; alcune forze politiche di destra e di estrema destra (Lega, Forza Nuova): movimenti e associazioni neofondamentalisti e antiabortisti (pro life – no choice) più o meno organizzati e diffusi territorialmente (Sentinelle in piedi, Giuristi per la vita, i No-gender particolarmente diffusi nel nord-est, vari gruppi promotori dei Family day, in Italia; Manif pour tous, in Francia); personaggi che si autodefiniscono eredi del pensiero di sinistra radicale, ma che dialogano con le destre estreme di cui sopra. Gruppo eterogeneo, questo, che a differenza di Ratzinger non ha letto libri di teoria del genere, ma che tuttavia imputa alla diffusione del gender una serie di fenomeni quali l’approvazione del matrimonio egualitario, l’aborto, l’introduzione di percorsi di educazione alle differenze nei programmi scolastici, opponendovisi con argomentazioni reazionarie, sessiste o omo-lesbo-trans-fobiche.
La rassicurante negazione dell’ideologia del gender
Non si può certo dire che coloro che fanno parte dell’altra fazione siano animati da intenti simili. Tutt’altro. Anche questa seconda fazione, però, adotta strategie di intervento nel “dibattito” che, di fatto, consistono nell’ostracismo e della teoria del gender e dell’ideologia del gender. E tale ostracismo, per essere più precisi, non riguarda solo le formule posticce con cui vengono etichettati dai loro detrattori i saperi, le pratiche e le aspirazioni delle minoranze sessuali. Esso riguarda, in grossa parte, la politicità e la radicalità di quei saperi, di quelle pratiche e di quelle aspirazioni. A far parte di questa fazione sono tutti e tutte coloro che, specialmente nel corso dell’anno che si è appena concluso, hanno ripetuto sui principali quotidiani e blog “progressisti” non solo che “la teoria del gender non esiste” o che “l’ideologia gender non esiste”, ma anche che “nessuno ha mai voluto mettere in discussione la naturalità della differenza sessuale”, solo per citare alcune delle formulazioni più ricorrenti. La negazione degli slogan da parte degli involontari membri di questa fazione, in sostanza, si accompagna a una rassicurazione circa il fatto che gli strumenti teorici e le aspirazioni politiche delle minoranze sessuali non sono nulla di così pericoloso o sovversivo: ciò che tali minoranze vogliono, in fondo, non è che la decostruzione degli stereotipi, un po’ di rispetto per le differenze, l’eguale possibilità di sposarsi e di entrare a far parte a pieno titolo, come gli eterosessuali, di una società il cui ordine simbolico nessuno vuole mettere in discussione. Il resto del lavoro lo svolgeranno i subdoli meccanismi attraverso cui il capitalismo neoliberale fa pinkwashing, dimostrando di non discriminare più le minoranze sessuali, ma includendole, in modi tuttavia rassicuranti e socialmente conformi.
Nulla più dell’affermazione del neoliberismo, d’altronde, ha reso opaco come l’inclusione apparentemente anti-omo-lesbo-trans-fobica non necessariamente coincida con la critica dell’eteronormatività, ma anzi operi di concerto con essa. E ciò rende incredibilmente difficile, per le minoranze sessuali, organizzarsi politicamente, specialmente a fronte della pressoché inalterata violenza epistemica, costantemente rinvigorita dalla prima fazione e involontariamente raddoppiata dalla seconda. A essere sacrificata, sull’altare di questa dialettica tra fazioni, è quella politica sessuale radicale che lotta contro l’omo-lesbo-trans-fobia, ma che non si accontenta della moralistica e rispettosa messa al riparo da essa, poiché ambisce a qualcosa di meglio, e cioè a eliminare i presupposti che la rendono possibile: i generi distinti e coercitivi; gli assetti eteronormativi della società. La teoria del gender, questo impossibile soggetto del discorso, non può che essere l’unico strumento possibile per ottenere l’impossibile.
federico.zappino@gmail.com
F Zappino è assegnista di ricerca in filosofia politica all’Università di Sassari