Il richiamo della foresta, ancora
di Giaime Alonge
“La cupa foresta di abeti rossi si era accigliata sulle sponde della via d’acqua ghiacciata. Il vento recente aveva denudato della bianca coltre di gelo gli alberi scuri che sembravano inclinarsi minacciosamente gli uni verso gli altri con l’affievolirsi della luce. Su tutto il territorio regnava un immenso silenzio. Fredda e solitaria, la terra era desolazione senza vita né movimento. Ma lo spirito non era triste; quella vaga allusione era una risata più terribile di qualsiasi tristezza, malinconica come quella della sfinge, fredda come il gelo e apparentemente risoluta come tutto ciò che è infallibile. Era la saggezza autoritaria e incomunicabile dell’eternità quando deride il futile sforzo della vita. Era il feroce e gelido cuore del Selvaggio Nord. Era il Wild”.
È l’incipit di Zanna Bianca di Jack London, nella versione italiana più recente (Feltrinelli, 2014), che giustamente lascia in originale la parola chiave: wild. Questo termine, infatti, così come il sinonimo wilderness, non è semplice da rendere nella nostra lingua, anche perché si tratta di parole che fanno riferimento a qualcosa che in Europa, e soprattutto in Italia, non esiste più da secoli. Se quello del wild costituisce uno dei miti fondativi della cultura degli Stati Uniti – da L’ultimo dei mohicani di James Fenimore Cooper a Into the Wild (2007) di Sean Penn, passando per Ernest Hemingway, John Ford e Cormac McCarthy – è proprio perché l’incontro con una natura possente e incorrotta ha rappresentato l’esperienza fondamentale di generazioni di coloni bianchi, impegnati a trasformare un continente “selvaggio” (e a sterminarne gli altrettanto “selvaggi” abitanti) in una nazione “civilizzata”.
Il wild non è ancora morto
In un recente articolo apparso su “La Lettura” (8 maggio 2016), Davide Ferrario sostiene che il cinema hollywoodiano contemporaneo non saprebbe più conferire spessore storico al paesaggio americano. Che il cinema e la cultura statunitensi di oggi siano assai diversi da quelli dell’epoca di Ford è cosa evidente. Ed è altrettanto evidente che i prodotti hollywoodiani contemporanei sono pensati per il pubblico internazionale in modo più marcato di quanto accadesse in passato, e quindi la loro “americanità” non può che risultare annacquata. Eppure, tanti film usciti negli ultimi anni, a cavallo tra mainstream e produzione indipendente, ci dicono che il mito del wild è tutt’altro che defunto. Si vedano tre titoli della corrente stagione cinematografica: Heart of the Sea – Le origini di Moby Dick (2015) di Ron Howard, Revenant – Redivivo (2015) di Alejandro Iñárritu, The Hateful Eight (2015) di Quentin Tarantino.
Il primo, come fa intendere il sottotitolo italiano (il titolo originale è semplicemente In the Heart of the Sea) racconta la vicenda del naufragio della baleniera Essex che ispirò Moby Dick, uno dei testi chiave della summenzionata tradizione narrativa americana incentrata sul mito della wilderness (i rimandi bibliografici, ovviamente, sono tanti, mi limito a un classico: Leslie Fiedler, Amore e morte nel romanzo americano, ed. orig. 1960, Milano, Longanesi, 1963). I film di Iñárritu e di Tarantino, però, sono certo quelli più interessanti. Non solo perché questi due registi sono autori nel senso pieno del termine, mentre Howard è quello che una volta si sarebbe chiamato un “buon artigiano”, ma anche perché Revenant e The Hateful Eight appartengono a un genere, il western, che per decenni ha dato corpo cinematografico all’archetipo del wild, e che ora (a partire dai primi anni ottanta) per molti versi è scomparso. Un genere cinematografico, infatti, per essere riconoscibile come tale, ha bisogno di una massa critica di titoli che escono ogni anno, e che producono un “effetto etichetta”. Per il pubblico sotto i quarant’anni, quello che non ha vissuto in sala l’ultima grande stagione del western degli anni settanta, e che non ha mai letto i fumetti di Tex Willer e di Zagor, probabilmente Revenant è un film di avventure, mentre The Hateful Eight non è altro che un film di Tarantino.
In The Hateful Eight, il wild rappresenta la cornice sontuosa di una vicenda che si svolge tutta in interno. Il film si apre con la contrapposizione tra lo spazio chiuso e civilizzato della diligenza e una natura tanto affascinante quanto ostile. È una dialettica che sta al cuore del cinema western sin da Ombre rosse (1939). E proprio come nel capolavoro di Ford, in The Hateful Eight, per quanto il wild possa essere pericoloso, la battaglia più insidiosa viene combattuta nel territorio tame (addomesticato). Fuori infuria una tempesta che può annichilire qualunque essere umano, ma è dentro che si dispiega l’orrore, con una specie di ibrido tra il western, lo splatter prossimo all’horror (il molto sangue e una protagonista femminile che è una specie di strega), e un giallo di Agatha Christie, con la detection condotta all’interno di un gruppo ristretto di personaggi, come avveniva nell’opera di esordio di Tarantino, Le iene (1992). Soprattutto, alla maestosità atemporale del paesaggio, The Hateful Eight contrappone la profonda storicità dei conflitti tra gli uomini. Infatti, allo scontro canonico tra criminali e tutori della legge si intreccia il conflitto razziale. E se il primo è uno scontro dai confini incerti, visto che ai criminali si contrappongono tutori della legge prezzolati o dalle credenziali dubbie (due sono cacciatori di taglie, e il terzo, il sedicente sceriffo di Red Rock, forse è un millantatore), lo scontro etnico è assolutamente chiaro: da una parte i bianchi razzisti del Sud, dall’altra i neri e i bianchi progressisti del Nord e dell’Ovest.
La natura fa paura ma l’essere umano di più
È una frattura che non si può riassorbire. Il microcosmo multi-etnico dell’emporio della nera Minnie – che pure è un po’ razzista anche lei, visto che non ammette messicani nel suo locale – simboleggia l’ideale del melting pot, ma la sua armonia è così zuccherosa da risultare posticcia. Dietro a quel velo, si cela la durezza del mondo reale, e Minnie e i suoi amici vengono massacrati senza pietà. L’inevitabile violenza che segna i rapporti tra bianchi e neri trova la sua espressione più radicale nella scena della fellatio, che ripropone, in chiave omosessuale, uno dei grandi fantasmi della cultura americana: il “negro” stupratore. The Hateful Eight, dunque, forma con il film precedente di Tarantino, Django (2012), un dittico che, nell’apparente leggerezza di un citazionismo cinefilo e pirotecnico, parla di qualcosa di estremamente concreto sul piano socio-politico: la realtà di un paese dove, a centocinquant’anni dall’abolizione della schiavitù, e dopo due mandati del primo presidente nero, la questione razziale è ben lungi dall’essere chiusa.
Se The Hateful Eight è attraversato dalla dialettica tra tame e wild, in Revenant di territorio tame quasi non c’è traccia. La vicenda si svolge nel 1823, agli albori dell’epopea del West, quando lungo la frontiera all’inglese ancora si alterna il francese, la lingua dei colonizzatori sconfitti (nella battaglia di Québec del 1759), e a spingersi nelle terre selvagge sono solo gruppuscoli di cacciatori di pellicce. Il film di Iñárritu si ispira al romanzo omonimo di Michael Punke (Einaudi, 2014), che a sua volta racconta una vicenda già narrata da altri libri e da un film, Uomo bianco, va’ col tuo dio (1971) di Richard Sarafian. È la storia autentica, presto divenuta leggenda, del trapper Hugh Glass, assalito da un orso e abbandonato dai suoi compagni, che lo credono prossimo alla morte, ma che invece sopravvive, per poi lanciarsi in cerca di vendetta, vero topos del cinema western. Lo si scopre solo leggendo il libro, ma uno dei cacciatori di pellicce del gruppo, il ragazzo che viene convinto dal perfido Fitzgerald ad abbandonare Glass, è – o meglio, sarà, più avanti nella vita – anch’egli una figura mitica della storia del West: Jim Bridger, uno dei primi uomini bianchi ad arrivare sulle Montagne Rocciose. Non per niente, incontriamo Bridger tra i personaggi di molti western, a partire da I pionieri (1923) di James Cruze, capostipite dell’epica cinematografica del West. Il film di Iñárritu, però, rifiuta uno degli assiomi di fondo di quella tradizione narrativa, che invece troviamo nel libro di Punke.
L’eroe americano, così come lo descrive Fiedler nel libro citato poco sopra, è un solitario che sceglie di andare oltre la frontiera, nella terra incognita, per sfuggire alla civiltà e al matrimonio. Nel romanzo, Glass ha una fidanzata nella civile città di Filadelfia, che però muore provvidenzialmente, risparmiandogli così l’imbarazzante scelta tra l’amore per la ragazza e quello per la wilderness, dal cui fascino il giovane proveniente dall’Est è rimasto soggiogato. Il protagonista di Revenant, invece, ha una moglie (che però è indiana, e dunque organica al wild) e un figlio. Soprattutto, la sceneggiatura ignora i passaggi del romanzo dove si descrive, attraverso gli occhi dell’eroe, la bellezza primeva del paesaggio dell’Ovest. In Revenant, la natura è matrigna, uno spazio infernale in cui gli uomini sono condannati a un’esistenza miserabile. È uno spazio certo molto lontano da quello dei western di Ford o di Anthony Mann, che al limite rimanda alla Valle della Morte del finale di Greed (1924). Ma il western è un genere dalla storia lunga, una storia che presenta fasi e tendenze tra loro molto diverse. Anche Uomo bianco, va’ col tuo dio conteneva una “tradimento” del paradigma, con il protagonista che, alla fine della sua odissea, rinuncia alla vendetta e torna nell’Est in cerca del figlio perduto.
giaime.alonge@unito.ita
G Alonge insegna storia del cinema all’Università di Torino