Dee malinconiche ed eterotopie navali
di Franco Pezzini
“Come dice Lucrezio, ‘così ognuno sfugge sempre a se stesso’. Ma a che giova, se non riesce a sfuggire davvero? Il nostro io ci segue e ci incalza come un insopportabile compagno. Pertanto, dobbiamo sapere che il male dal quale siamo spossati non dipende dai luoghi, ma da noi stessi”. Un viaggio nell’alterità, un rapporto ambiguo con luoghi dalle dimensioni simboliche che richiama a noi stessi: queste parole di Seneca (De tranq. 2, 14-15) sembrano ben introdurre la presentazione di due recenti, ottimi saggi che interessano l’ambito dell’immaginario in forme diverse con fertile latitudine di sguardo.
I Romani e il male oscuro
Il primo saggio – da cui si è attinta la citazione – muove proprio nell’ambito latino. Nel suo assoluto rigore filologico, La depressione è una dea. I Romani e il male oscuro di Donatella Puliga, docente di Civiltà classica e Lingua e letteratura latina all’Università di Siena (pp. 238, € 20, il Mulino, Bologna 2017), è però uno di quei libri capaci di incantare anche un lettore non abituale di letture classicistiche, per la suggestione del contenuto, la vivacità degli spunti e la qualità stessa dell’esposizione. Per il mondo greco il male noto come malinconia è visto essenzialmente quale malattia del corpo: legato al più misterioso dei quattro umori, la bile nera, porterebbe fuori di sé fino al sentirsi lupi o magari galli da pollaio. A Roma, al contrario, l’enfasi verrà posta sulle sofferenze psicologiche, prefigurando un concetto moderno di depressione: basti pensare al caso di Cicerone, isolato politicamente e devastato dalla morte della figlia, che dedica spazio alla propria condizione nelle Discussioni tuscolane, identificando dolor animi e solitudo quali segni di un male di vivere molto diverso dalla pazzia. In realtà episodi malinconico-depressivi sembrano nettamente emergere in almeno tre momenti della sua vita, in generale non compresi dagli interlocutori col risultato di peggiorare rabbia e isolamento dell’interessato: e la scrittura gli funge da “impacco sul dolore”.
Ma Cicerone non è naturalmente il solo autore latino a patire il male di vivere. Puliga ne incalza le tracce nelle opere di Lucrezio (affascinante l’analisi terminologica, a svelare indizi di depressione ansiosa e mania ossessivo-compulsiva), Orazio, Seneca; alla luce del pensiero di quest’ultimo studia la sintomatologia della depressione “romana”, il nesso cause-origini-effetti e i possibili rimedi; e analizza l’enigmatico profilo di quella dea Murcia che, spiegherà Agostino (pure soggetto a disturbi depressivi) nella Città di Dio, “porta a un esagerato immobilismo e rende l’uomo murcidus […] cioè eccessivamente pigro e inattivo”. Dove il nesso murcidus/marcidus da un verbo marceo, “marcire”, guarda a dimensioni interiori e di energia vitale, fino a una dilatazione metaforica alle sfera della depressione. L’autrice affronta poi il concetto di veternus, lo stato d’indolenza e apatia degli uomini precedenti il tempo di Giove che invece non sopporterebbe tale condizione torpida (Georgiche, I, 124), tale da render vecchi prima del tempo e trascolorare più avanti nell’accidia degli autori cristiani.
Dopo un affascinante intermezzo sull’associazione della depressione nella lingua inglese all’immagine del cane nero (riconnessa a Orazio, ma in realtà a un intero orizzonte folklorico post-neolitico, di cui interessanti echi sopravvissuti nell’immaginario britannico), Puliga affronta i peculiari e struggenti risvolti del male nell’opera di Ovidio; passa a considerare il tema – economicamente e giuridicamente rilevante – della depressione tra gli schiavi; e affronta in ultimo il manifestarsi dell’equivoca Murcia in forma di acedia (termine di origine ippocratica, uno stato di tristezza simil-malinconico) nella realtà monastica cristiana dei primi secoli. Responsabile sarebbe un demone meridiano (nel senso di un orario più a rischio tra le dieci del mattino e le due del pomeriggio) che però trova fertile terreno d’azione in nature irrequiete e volubili, narcisisticamente ripiegate sul proprio io: un quadro dove tuttavia forme di continuità con il malessere psichico denunciato dagli autori classici appare evidente.
L’eterotopia della nave nella letteratura e nel cinema
Ancora struggimenti legati a impatti emotivi particolari, come quello di Ovidio esule, troviamo in alcune parti di un secondo volume di grande fascino, apparso un po’ di mesi prima con un taglio diverso. Era stato Foucault a far rilevare che tra le eterotopie – cioè quegli “spazi altri” avvertiti come di contestazione/separazione dagli spazi a noi noti – il caso in assoluto più paradigmatico, l’eterotopia per eccellenza è la nave: e a questo tema Paolo Lago, dottore in ricerca in Letterature straniere e Scienze della letteratura presso l’Università di Verona e in Scienze linguistiche, filologiche e letterarie a quella di Padova, ha dedicato un saggio ricchissimo, denso di spunti e ramificazioni ma pure di lettura estremamente godibile. La nave, lo spazio e l’altro. L’eterotopia della nave nella letteratura e nel cinema (pp. 213, € 20, Mimesis, Milano-Udine 2016) è un itinerario – o piuttosto una rotta – tra diverse tipologie di navi: a partire da un prologo sui “serbatoi di immaginazione” che sono le navi dell’Odissea, portatrici del racconto che nel poema fonda lo spazio, ed elementi di creazione del relativo universo mitico/cosmico. Certo la nave vi appare luogo di sofferenza ma anche in qualche modo d’iniziazione e civiltà (i Ciclopi, per dire, non conoscono la navigazione), spazio di salvezza e “piccola patria”, mezzo di comunicazione. E da tale punto di partenza Lago declina e riconosce cinque modelli che solcano il nostro stesso immaginario.
Odisseo è in qualche modo un esule, e una prima tipologia è quella delle navi emigranti e dell’esilio. Col loro moto duplice di speranza e di angoscia: si pensi alle narrazioni (letterarie o cinematografiche) degli emigranti e dei viaggiatori “che partono verso mondi sconosciuti e quasi fantastici”, poco importa se con meta oltre Atlantico o invece dall’Africa sulle coste italiane. Per dare un’idea di quanto sia variegato lo spettro in esame, Lago analizza scorci da Il primo Dio di Emanuel Carnevali (1978), Son of Italy di Pascal D’Angelo (1924), Vita di Melania Mazzucco (2003), dai film Nuovomondo e Terraferma di Emanuele Crialese (2006 e 2011) ma anche pagine del De Amicis di Sull’Oceano (1889) e del Kafka dello spettralmente espressionista Amerika (1927). Con qualche peculiare rapporto – si è anticipato – tra scrittura, intellettuali e nave dell’esilio: appunto l’Ovidio dei Tristia e quello riletto da Christoph Ransmayr ne Il mondo estremo (1988), ma anche il Cartesio narrato da Raffaele Simone ne Le passioni dell’anima (2011).
Ma anche nel prosieguo del saggio la ricchezza e l’eclettismo non deludono. La storia di Odisseo è forse il più paradigmatico racconto d’avventura d’Occidente, ed ecco – seconda tipologia proposta – le navi nel bachtiniano “tempo d’avventura”. Da quelle di pirati e peripezie nel “tempo vuoto” del romanzo greco alla nave-microcosmo di Petronio, da quella intesa da Rabelais come spazio di libertà volto alla costruzione di un “nuovo quadro del mondo” (meta, l’Oracolo della Diva bottiglia) alle navi settecentesche di Swift, Seriman (Viaggi di Enrico Wanton ai regni delle scimmie e dei cinocefali, 1749), Defoe e del Voltaire del Candido che puntano verso mondi fantastici, eldoradi e isole deserte. È chiaro che qui i sentimenti tra avventure e sberleffi non sono più quelli della malinconia, che pure a cenni (La più bella di Gozzano) può essere avvistata. Ma poi arrivano le navi dei pirati (Stevenson e La vera storia del pirata Long John Silver di Björn Larsson, più tutti gli altri, Salgari compreso); le navi-carcere del Céline di Viaggio al termine della notte e del Fellini-Satyricon (seguito anni dopo dal grande “serbatoio di immaginazione” di E la nave va); le navi – qui il catalogo sembra ammiccare a categorie vagamente borgesiane – “solo accennate o intraviste” dell’Educazione sentimentale del Flaubert e del Felix Krull di Mann; per finire con quelle – col Roderick Duddle di Michele Mari – di “un nuovo tempo d’avventura”.
La terza tipologia riguarda una dimensione in qualche modo contigua ma differenziabile, le navi della ricerca e dell’erranza, tra le Argonautiche di Apollonio Rodio e Moby Dick; e la quarta passa agli scafi di incubi e inquietudini, perché se la nave è “il più grande serbatoio di immaginazione” ciò può avvenire anche nel segno dell’ombra. Ecco dunque il Narrenschif mostruoso e grottesco, brancolante d’insensati; ecco le eterotopie di Poe (soprattutto ma non solo il Pym), Hodgson e Carpenter, l’Olandese volante di Marryat e Wagner, le navi allarmanti di Conrad (tra le varie, quella del Compagno segreto, con le crepe del Perturbante nello spazio colonialista ottocentesco) e nuovamente di Céline, Traven, Arlt; ecco i vascelli post-stokeriani dei Nosferatu di Murnau ed Herzog. Ovviamente il recensore, sgranando titoli e autori, offre del repertorio solo una panoramica un po’ pallida, ma l’abilità dell’autore sta nell’inseguire affabulatorio trame e suggestioni illuminandone con rigore le dinamiche sociali e i rapporti tra spazi di volta in volta messi in comunicazione, a seconda dell’epoca e della species.
Ma le navi possono stancarsi, fermarsi, naufragare: e la quinta tipologia individuata riguarda le navi ferme e in disarmo tra Eco, Álvaro Mutis, Jean-Claude Izzo e la nave/stazione radio pirata del film I love Radio Rock di Richard Curtis. A chiusura poi del tutto e pendant con il prologo odissaico, un epilogo su un luogo “altro” eccellente dell’immaginario postmoderno, la nave-albergo della crociera, a sua volta serbatoio d’immaginazione, parente dei non luoghi alla Augé: e qui Lago interpella David Foster Wallace, Manoel De Oliveira e il Godard di Bande à part. Ma “Dove va – possiamo chiederci alla fine di questo viaggio – questo ‘serbatoio di immaginazione’? Non collega più mondi utopistici, fantastici, meravigliosi; il sogno e l’avventura hanno perso la loro misteriosa aura. Sembra che nella società contemporanea dominata dal Capitalismo maturo anche la stessa eterotopia della nave si infranga per lasciare spazio al nuovo mondo globalizzato e livellato, diretto verso un inesorabile declino; ma, come Frantz e Odile di Bande à part, non smettiamo un solo istante di pensare a spazi liberati ‘in cui nulla è in declino’ nell’attesa, forse, di altre ‘eterotopie per eccellenza’ che ci conducano ancora verso avventure e sogni, verso nuove realtà, verso l’assolata bellezza di nuovi corsari”.
franco.pezzini1@tin.it
F Pezzini è saggista